Sangue innocente
La mattina dopo ci svegliammo alle 4:30, stretti sotto le coperte in un sonno che non avremmo mai voluto interrompere. Avevamo dormito molto poco, ma sembrava che entrambi avessimo un'energia incredibile. Feliks aprì gli occhi lentamente, con le guance arrossate e le labbra arricciate in un sorrisino amorevole, con una dolcezza tale che per qualche istante mi dimenticai di essere in un bunker sotterraneo. Sorrisi a mia volta, venendo poi trascinato giù dal letto dall'insistente e sempre più assordante brusio che proveniva dai corridoi. Indossammo le uniformi e, in un paio di minuti, eravamo già fuori dal bunker, mentre il resto della città si risvegliava assieme al sorgere pigro del sole. Per le strade vedevo per lo più soldati e giovani donne, munite di acqua e pane dall'aspetto troppo poco invitante e bende, che si occupavano di dare aiuto a chi ne aveva più bisogno. Vidi anche alcuni bambini emergere dagli scantinati dei palazzi danneggiati, correndo con le gambette agili tra le macerie concedendo al quartiere una nota di vita. Si sentivano le loro flebili risate accendersi timide tra la polvere e le case pericolanti, con un'innocenza che mancava sui volti di noi adulti, troppo scossi dalla realtà degli scontri per azzardare una risata. Non era la prima volta, dall'inizio della guerra, che la zona subiva un bombardamento e, superato lo shock del giorno prima, i bambini erano tornati a giocare con i loro soldatini come se non stesse accadendo nulla di grave. Feliks sorrise alla vista di tale innocenza, stringendosi a me. Notai alcune infermiere, facilmente riconoscibili dalla fascetta con la croce rossa sul braccio, che trasportavano, aiutate dai soldati, dei corpi senza vita avvolti in lenzuola bianche. Erano una decina i cadaveri che stavano portando via, lontano dalla vista dei piccoli e dei parenti straziati, dove poi sarebbero stati sepolti. Altri corpi erano ancora abbandonati nel quartiere, in attesa di essere portati via, coperti dai veli bianchi come fossero degli angeli. Vicino ad uno dei bozzoli candidi scorsi lo sguardo afflitto di Zofia, con gli occhi palesemente stanchi e le guance ancora rosse di un pianto disperato che doveva essere durato ore. Portava i capelli sciolti, ricci e folti come la criniera del più fiero dei leoni a darle un'aria fiera e risoluta, che parecchio stonava con il dolore che le oscurava il viso. L'ultimo addio all'amato fratello, prima che il suo corpo venisse portato via assieme agli altri, anonimo, dimenticato, l'ennesima anima portata via dalla guerra.
Mi chiesi cosa fosse meglio, morire o vivere in quella situazione atroce. La morte è un sogno, un'utopia per noi nazioni, un miracolo tanto raro quanto agognato. Voi, persone normali, vi ritrovate spesso a porvi domande sul futuro, sul vostro destino, voi vi preoccupate del tempo che scorre inesorabile e veloce, temete la morte, spesso, la ripudiate. A noi nazioni non è concesso pensare al futuro, temiamo la vita, portiamo sulle spalle il macigno del nostro lungo passato e le nostre schiene tremano e pregano affinché la morte le liberi da quel dolore. Se avessi saputo cosa quella guerra ci avrebbe portato in futuro, avrei sicuramente preferito la morte. Se penso a quanti altri dolori ci saranno nel mio eterno futuro, sceglierei anche ora la morte. Ma non posso, non potevo e non potrò mai. Come non può, non poté e mai potrà il mio Feliks, bello e dagli occhi troppo innocenti per aver vissuto così a lungo.
Eppure, per quanto desiderassi ardentemente lasciare questo mondo, vedere tutta quella morte di metteva a disagio. L'odore acre del sangue, i corpi dalle espressioni vuote, le lacrime e le urla dei vivi lasciati soli. Guardai il mio Polonia, i suoi occhi vivi, accessi, seppur colmi di un dolore insopportabilmente grande. E me lo immaginai morto. Immaginai i suoi capelli divenire secchi, biancastri, la pelle farsi gelida e violacea, immaginai i suoi occhi divenire vuoti, la sua luce spegnersi assieme a tutto ciò che di bello ha la sua presenza. Me lo immaginai e stetti male, malissimo. Perché la morte era una via di fuga, la salvezza, ma era una soluzione tanto, troppo estrema. E mi resi conto che, ogni qualvolta una persona muore, nel nostro mondo si crea una faglia, una cicatrice, e tutto il bello che quella persona vantava si perde nel nulla. Mi resi conto che la benevola morte, una volta portata in salvo un'anima, si lascia alle spalle una scia eccessivamente oscura ad incrementare il dolore di chi la vita non l'ha ancora vissuta del tutto.
- Lo stanno facendo.- Feliks mi destò dai miei pensieri con la sua voce meravigliosamente limpida e soave. In viso aveva un sorriso tanto soddisfatto quanto calmo, come se si fosse tolto un peso di dosso.
Davanti ai nostri occhi una schiera di soldati s'impegnava ad aiutare i civili nel prepararsi alla fuga, stavano organizzando l'evacuazione tanto voluta da Polonia.
- Dopo aver visto i tuoi occhi ieri...- sorrisi io, mentre l'immagine del suo viso rosso di rabbia e del suo sguardo furente si facevano largo nella mia memoria. - Penso non avrebbero avuto il coraggio di disubbidirti, Po...- i nostri occhi si incontrarono in un'occhiata d'intesa, forte e indistruttibile, e le mani di Feliks si unirono alle mie.
Era sempre così dannatamente innocente, quella sua splendida gioia era sempre presente nel suo animo fanciullesco. Non mi rispose però. Le sue labbra faticavano a reggere quel sorriso soddisfatto mentre Feliks udiva i pianti disperati della sua gente attorno a lui, ma era felice che qualcuno, finalmente, gli avesse dato ragione. Ma, non capisco se fu la suggestione del momento, mentre guardavo nei suoi occhi tanto belli quanto sofferenti, venni pervaso da una sensazione orrendamente spiacevole. Un brivido mi attraversò inaspettatamente la schiena e il tocco delle mani di Feliks si fece improvvisamente più freddo. Sentivo quasi un sussurro nella mia mente, il lento fruscio di una brezza gelida risuonarmi nelle orecchie, come di un canto tenebroso. E negli occhi di Feliks scorsi il nero mantello della mia amica morte. La vidi dentro di lui, a rendere scure le sue iridi splendenti, marciare nella sua testa, nel suo cuore, nel suo bel corpo. E il sorriso di Polonia d'un tratto morì e lui si fece più cupo, i suoi capelli più grigi, la sua pelle più vecchia. Era un cambiamento quasi impercettibile, ovvio, ma io non potei non notarlo. E così la morte si fece più vicina a lui, mio amato, e lentamente lo stava piegando. Feliks tossì, timido, poi sollevò lo sguardo e smise definitivamente di sorridere. E il presagio di sconfitta si fece più reale e le speranze appassirono e divennero vane. Polonia la sentiva arrivare, la sentiva muoversi nei suoi arti, tra le strade delle sue terre. E chinò la testa, singhiozzò, ma non pianse. E mentre le sue dita magre sfioravano le mie, lui si fece abbracciare dalla cupa e nera mietitrice, mentre tentava, con le ultime forze rimastegli, di salvare almeno i suoi cittadini. Ma lui era spento, ormai, cupo. La sua innocenza, terribilmente violata, non gli impedì di comprendere il male che stava avvenendo.
- Non servirà a nulla... vero..?- mi chiese con voce rotta, quasi supplichevole. Faceva male la realtà, più della morte stessa, e desiderava protezione, uno scudo contro della tremenda realtà.
Non risposi. Chinai la testa, lo abbracciai e gli baciai la fronte. Più lo stringevo più lo sentivo debole, impoverito della sua grazia. No, non sarebbe servito a nulla. La morte era troppo vicina, troppo avida, quella disperata fuga non avrebbe salvato il suo popolo, ne avrebbe rallentato la sua sconfitta. Sentivo il suo cuore battere disperato, milioni di pensieri scatenarsi nella sua testa a confonderlo ed impaurirlo. Lui si strinse a me come un bambino fa con la mamma, singhiozzava e tremava di paura. Ma non temeva per se stesso. Lo sapevo io, e ormai lo avrete capito anche voi, aveva paura per il suo popolo, per gli innocenti, per i bambini indifesi, per i civili, suoi fratelli amati. E così sentii le sue mani stringere la mia camicia, dietro la schiena, mentre tentava di nascondere il viso tra le mie braccia, troppo spaventato per avere la forza di mostrarmi i suoi occhi confusi. Quello che avviene ogni secondo nella sua testa è un mistero, soprattutto in situazioni talmente drammatiche. Si sente confuso, questo è evidente, perché la sua mente da bambino non è pronta, non è capace di accettare situazioni tanto crudeli, troppo orrende anche per il più coraggioso degli adulti. E crolla, ogni tanto, ha paura, chiede aiuto e trema, perché il mondo in cui vive diventa improvvisamente troppo freddo e ostile per lui. Va protetto da tutto il male che il mondo ha da offrire e questo è sempre stato compito mio, che io ne fossi in grado o meno.
- Guardami...- gli sussurrai all'orecchio, così che la mia voce gli suonasse più soave e piacevole. Lui sollevò timidamente lo sguardo e mi guardò esitante, con gli occhi lucidi e spaesati. Io sorrisi per lui, per farlo stare bene, per calmarlo. - Resisti... io ci sarò sempre. Sempre.- e detto ciò gli accarezzai il viso e feci unire le nostre labbra in un bacio dolce e casto. I muscoli del suo viso si rilassarono, i pensieri confusi nella sua testa si alleviarono e divennero più comprensibili, si calmò e tornò bambino.
- E continuerai ad aiutarmi..?- azzardò poi, stretto ancora nel mio abbraccio, con un tono tanto dolce quanto insicuro e supplichevole.
E giuro che se avessi potuto l'avrei preso in braccio, gli avrei baciato la testa e gli avrei sussurrato un caloroso "sì". Ma, ovviamente, qualcosa doveva pur andare storto, doveva assolutamente avvenire qualcosa che ci turbasse ancor di più. Così, mentre ancora tenevo Feliks stretto a me, una voce si levò dall'alto di una barricata. Una sola voce, ma tanto potente da riuscire a farsi sentire da tutti noi poveri disperati.
- Li vedo!- urlò quindi un giovane soldato, agitando un binocolo per attirare l'attenzione di ufficiali e civili. - Arrivano! Arrivano!- ed in pochi balzi lui e tutta la sua piccola pattuglia di guardia erano balzati dalla cima della barricata, con delle espressioni terrorizzate in viso da far paura. - Al riparo!-
Ci fu dapprima un silenzio tombale, impressionante. Poi si udì in lontananza l'orrendo e familiare rombo di uno stormo di aerei in pericolosa avvicinata. E di nuovo nel quartiere fu il panico. Molta gente, tra civili da evacuare e soldati, si trovarono in strada, vulnerabili, quella mattina, mentre l'assordante avvicinarsi rapido degli aerei riempiva la zona di paura. Quando sentii poi aprirsi il fuoco sulla folla, capii che non avremmo avuto neppure il tempo di trovare rifugio, la possibilità di salvarci. Non portavano bombe quegli aerei, erano piccoli, agili, non erano bombardieri, ma erano carichi, carichi di piombo. Le mitragliatrici non avevano pietà per nessuno e la pioggia di proiettili si abbatté sulla folla inarrestabile. E davanti a me, tra le vie, cominciai a vedere persone crollare a terra, sangue schizzare grottescamente sulle pareti dei palazzi sempre più danneggiati, mentre urla di terrore e dolore si levavano sempre più alte assieme ai rombi degli aerei. Io afferrai di scatto il polso di Feliks, lo strinsi forte, troppo, ma non m'importava. Volevo solo essere sicuro di averlo accanto, di non perderlo in mezzo a tutto quel trambusto. Lo trascinai, di forza, e lo spinsi sotto le pericolanti macerie di un balcone crollato, poi mi gettai su di lui e cercai di fargli da scudo assieme alle pareti cadenti del palazzo. Polonia si premeva le orecchie con le mani ed urlava, urlava senza ritegno, urlava spaventato, addolorato, confuso, tutto quell'orrore non lo reggeva più. E gli presi la testa tra le mani e lo strinsi ancor di più, nascondendogli il viso sul mio petto, per non farlo assistere a quello spietato massacro. Le sue lacrime mi inzupparono la divisa, le sue mani tremanti, la sua voce rotta ad urlare ultime disperate suppliche, la sua paura era la mia debolezza. Iniziai a tremare, mentre sentivo i proiettili scagliarsi sulla folla a solo pochi metri da me. Il muro che ci teneva a malapena protetti prese a crollare lentamente, devastato dalla pioggia di piombo che incombeva invincibile su esso, ed io iniziai ad urlare a mia volta. Stesi in malo modo Feliks a terra, poi mi stesi su di lui e feci sì che tutto il mio corpo divenisse uno scudo, l'armatura di un cavaliere. Lo avrei protetto in ogni modo, anche a costo di morire con decine di proiettili in corpo, nulla doveva ferire il alcun modo il mio amato. Lui mi cinse il collo con le braccia, mi abbracciò, e per quanto il suo esile corpicino smagrito gli permettesse, cercò a sua volta di proteggermi.
- Ti amo!- mi disse, mi urlò, rotto dalle lacrime, dal dolore, dal timore di perdermi, di vedermi morire, spaventato all'idea di trovarsi solo o di dover soffrire ancora.
Una crepa squarciò il muro, lo aprì in due, profonda, ed io sentii che era giunta la fine per me. Mi chinai su di lui, mi feci grande, insormontabile, e tutto il corpicino del mio amato venne avvolto dalle mie braccia.
- Ti amo anch'io...- gli sussurrai, ma in tutto quel fondersi di morte, urla e spari dubitai avesse potuto sentire quella che sarebbe potuto essere il mio ultimo e spassionato addio.
E di nuovo calò il silenzio. Gli spari, che come un crescendo si erano fatti sempre più forti e vicini, erano improvvisamente cessati, così come il rombo degli aerei cominciò a farsi più lontano, vago, come se tutto fosse stato solo un triste e atroce incubo. Rimasi immobile, comunque, a sormontare il mio amato senza timore alcuno, pronto a proteggerlo, a salvarlo. Le urla di Feliks cessarono, il suo respiro si fece pesante tra le mie braccia e i singhiozzi del suo pianto disperato presero a ronzarmi in testa, dolorosi ancor più delle urla. Sollevai lo sguardo: la crepa sul muro s'era fatta più larga. Sentivo gli scricchiolii del cemento, i lamenti dei proiettili incastrativi dentro. Presi Feliks tra le braccia e lo tirai via goffamente, lontano dalla parete pericolante, laddove corpi dilaniati e sopravvissuti sconvolti si ammassavano in un miscuglio di polvere e sangue. E come era accaduto solo il giorno prima, ci ritrovammo in un inferno terreno. Il silenzio durò poco, troppo poco, così i feriti, i disperati, gli sconvolti, tutti presero ad urlare atrocemente il loro indescrivibile dolore. E questa volta i morti erano stati di più, colti impreparati sotto quella fitta tempesta di morte, giunta a ciel sereno senza preavviso. Sentivo il sangue dei corpi distrutti bagnarmi le suole delle scarpe, viscido, scivoloso, vomitevolmente spaventoso. Tenni Feliks in braccio, saldamente, non volevo che i suoi piedi dovessero calpestare il sangue del suo stesso popolo come stavo facendo io, senza scelta alcuna. Si strinse a me, serrò gli occhi, si premette di nuovo le mani sulle orecchie e trattenne urla e suppliche disperate. Tremava, ogni suo muscolo era irrigidito, spaventato, le lacrime gli bruciavano le guance rosse.
- Mi fa male!- diceva e, seppur non fosse ferito, sapevo benissimo quanto stesse soffrendo. I singhiozzi rischiavano di soffocarlo, la pelle era rossa, calda, bruciava come fosse coperta di ortica. Lentamente il mio Feliks stava cadendo a pezzi, frammento dopo frammento, e, esattamente come la sua psiche, il suo stesso corpo era ormai sul punto di distruggersi.
Io mi accasciai a terra, sopraffatto dal peso della paura, del dolore, della disperazione. Strinsi Polonia come non avevo mai fatto prima, gli accarezzai i capelli, un nodo alla gola mi soffocava, la lacrime, il cuore che batteva forte, disperato. Non volevo nulla di tutto quello. Non volevo avere occhi per vedere, orecchie per sentire, non volevo un cuore, un cervello, non volevo quella vita eterna che il destino mi aveva serbato. Volevo che tutto finisse, non m'importava come. Che Feliks potesse riaprire gli occhi senza paura di vedere la morte, che la sua voce potesse intonare risate felici e non incrinarsi in urla strazianti. Tutto ciò che avevo, che amavo, stava andando sgretolandosi.
Un boato dietro di noi. Il muro era crollato solo pochi attimi dopo che ci allontanammo.
***Angolo del boh***
Scusate se aggiorno ogni 10 anni, ma diventa sempre più difficile scrivere queste parti. Quindi gne, kurwa.
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