La fuga
Vidi Ungheria sporgere appena la testa fuori dalla tenda, studiando per qualche attimo la situazione che si presentava all'esterno. Io e Polonia stretto a me la fissavamo con aria interrogativa.
Con quel poco che riuscii a vedere, potevo capire che l'esplosione improvvisa aveva causato non poco caos nel campo. Soldati che correvano avanti ed indietro, la maggior parte portando secchi stracolmi d'acqua per spegnere l'incendio causato dall'esplosione. Chi si guardava attorno senza sapere che pesci pigliare, chi cercava di salvare chi era stato coinvolto nell'incendio. Insomma, tutti erano talmente impegnati a rimediare ai danni dell'esplosione, che nessuno badava a noi ancora nella tenda. E Ungheria lo sapeva, lo sapeva fin da subito. Ritrasse il viso all'interno rivolgendosi a noi con aria sbrigativa.
- Dobbiamo sbrigarci...- disse avvicinandosi a passo svelto verso di noi, per poi prendere Polonia per una spalla, quasi esitando a causa dei mugugni di dolore che Feliks aveva cercato di trattenere. - scusa, Po... ma non c'è molto tempo.- subito dopo guardò me, incitandomi con lo sguardo a prendere Polonia per l'altra spalla e seguirla.
Mi limitai ad annuire, facendo come ordinava. Tirai su Polonia più delicatamente che potevo, facendo attenzione a non fargli troppo male, per poi fargli poggiare la testa che, priva di forze cadeva a penzoloni in avanti, sul mio petto.
- Va tutto bene, Po...- dissi con tono calmo, accarezzandogli dolcemente la guancia, come a tranquillizzarlo, per non fargli dimenticare che in qualunque caso io ero sempre lì accanto a lui. Ad accarezzarlo, a stringerlo tra le mie braccia, a colmare il suo cuore d'amore. Mi scambiai poi uno sguardo d'intesa con Ungheria che, felice del contributo che ci stava dando, continuò la mia frase.
- Tra poco sarai al sicuro...- continuò lei, accarezzandogli i capelli con dolcezza, anche lei attenta a non fargli male. - con il tuo Liet. - concluse poi, iniziando ad avvicinarsi all'uscita della tenda mentre io, e quel poco che riusciva il mio Feliks attaccato a noi, la seguivamo.
- C-con L-Liet... sono sempre... al s-sicuro... - sospirò Feliks, stringendosi a me. Sollevò debolmente il viso, sfiorando il mio. Sorrideva, sempre e comunque sorrideva. Quelle sue labbra screpolate contratte leggermente mi davano un senso di forza, la loro vista mi dava coraggio. La sincerità di quel sorriso, la sua dolcezza. Senza che neanche me ne accorgessi stavo avvicinando le mie labbra alle sue, senza neanche pensare di chiudere gli occhi. Quelle labbra, i suoi occhi tristi, ma allo stesso tempo illuminati dalla forza di volontà, il suo viso che nonostante le ferite rimaneva per me il più prezioso dei gioielli, tutto di lui in pochi attimi mi aveva ipnotizzato. E così cercavo avidamente un contatto con lui, cercavo avidamente di baciarlo, ma... si ecco, non era il momento migliore.
- Ok, possiamo andare!- annunciò Ungheria, quasi sussurrando, in modo da non attirare l'attenzione dei soldati che correvano in preda al panico non troppo lontani da noi. Si voltò nel pronunciare quelle parole, cogliendomi in flagrante. Sentendo il suo sguardo su di me e consapevole che se volevo che il polacco, luce dei miei occhi, che stavo per baciare fosse al sicuro senza perdere tempo, mi vidi costretto ad allontanare il mio viso dal suo, leggermente rosso in volto. Ungheria sorrise divertita, dopo tutto è risaputo che sia una ragazza che si batte molto per la tutela delle coppie gay.
Polonia quasi sbuffò, seccato, suppongo, dal non aver ricevuto quel bacio. Lo ero anch'io, ma le sue labbra potevano aspettare, la sua incolumità no. Annuì alle parole di Ungheria, prendendo meglio, assieme a lei, il polacco in spalla, per poi sgusciare finalmente fuori dalla tenda dopo tanto tempo. Ebbi un sussulto appena misi il piede fuori, spaventato all'idea che qualcuno ci avesse visti. Dovetti, fortunatamente, ricredermi. Tutti erano davvero troppo impegnati per preoccuparsi di una nostra possibile evasione. Polonia era troppo debole per fuggire ed in quel momento un dubbio mi invase: Come poteva Polonia, con quale forze, fuggire da lì? Se non riusciva a restare in piedi? Ovvio, c'ero io, ma quanto potevamo resistere?
Non chiesi nulla ad Ungheria, stava già facendo tanto per noi, ma la paura che il mio Polonia non avesse resistito fino al fronte polacco era enorme.
La mora ci condusse frettolosamente ed in maniera furtiva sul retro della tenda dove, presumibilmente, nessuno poteva notarci. C'era un cavallo dietro. Debole, chiaramente mal nutrito, mi ricordava Polonia per le condizioni in cui era tenuto, motivo per cui mi affezionai immediatamente a quell'animale.
- Scusate... non sono riuscita a procurarvi altro...- quindi saremo fuggiti in groppa a quella povera bestia? Mi faceva una tale pena, aveva gli occhi tristi, la testa bassa, ma nonostante tutto mi piaceva quel cavallo. Non sono uno particolarmente attaccato agli animali, ma quello era diverso. Sarà stata la "somiglianza" con Polonia, chissà.
- Va bene... hai fatto tanto per noi.- la rassicurai io avvicinandomi al cavallo, per poi accarezzarne dolcemente il manto. - Vuol dire che porteremo anche lui al sicuro.- sorrisi, rivolgendomi poi a Polonia, abbracciandolo, pronto a prenderlo in braccio. - un ultimo sforzo, Po... - gli dissi sollevandolo delicatamente da terra, mentre al mio orecchio giungevano alcuni suoi piccoli mugugni. Si sentiva che cercava di trattenerli, sapeva che mi preoccupavo per lui, quindi cercava di apparire ai miei occhi meglio che poteva. Ma stava male, era ovvio. Cercò di sforzarsi anche da se per salire in groppa all'animale e, a fatica, riuscì a stabilizzarsi, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo a causa dello sforzo. Lo feci sistemare in groppa esattamente come le principesse, dopo tutto lui è il mio piccolo principino delle fiabe, con entrambe le gambe su un lato del cavallo mentre, esausto, aveva poggiato il busto sul collo allungato dell'animale, accarezzandogli dolcemente la criniera, con quella dolcezza unica che solo lui ha.
- G-Grazie...- sussurrò rivolto a Ungheria, sempre con quel sorriso sincero e amichevole che mai rappresentava uno sforzo per lui. L'ungherese a sua volta ricambiò un sorriso mimando con le labbra un "di nulla" quasi commosso.
Dopo di che la ragazza si rivolse a me, porgendomi un sacchetto e la pistola che portava sulla divisa militare verde scuro. Ne rimasi sorpreso, addirittura cibo e armi non me lo aspettavo, dopotutto era una fuga organizzata in poco tempo.
- Eliza... - cominciai la frase, ma non la conclusi. Tra me e me pensavo che quello era troppo che quanto aveva fatto bastava, che non c'era bisogno che facesse tanti sacrifici, poi pensai a Polonia, a quanto un po' di cibo potesse aiutarlo, a quanto una pistola potesse difenderlo, quindi mi limitai a sorriderle. - Grazie...- Le dissi con le lacrime agli occhi per la gioia e l'emozione che l'illusione che finalmente Polonia fosse al sicuro mi avevano portato. Addirittura ricordo che l'abbracciai tanto che le ero grato.
Ungheria ricambiò appena la stretta, separandosi quasi immediatamente da me, voltandosi e dando una rapida occhiata dall'altra parte del campo, per assicurarsi che nessuno ci avesse notati. Fortunatamente avevano di meglio da fare, tutto stava andando bene. Per la prima volta dall'inizio del mese il destino era stato dalla nostra parte, Dio finalmente aveva ascoltato le mie preghiere e ci aveva mandato l'ungherese, il nostro nuovo angelo custode.
- L'ho fatto col cuore.- disse poi voltandosi un'ultima volta verso di noi con un sorriso tanto dolce quanto soddisfatto. - ora andate, prima che vi scoprano!- fece attenzione a non urlare queste parole, facendomi segno di sbrigarmi a salire in sella al cavallo per portare in salvo il nostro caro Feliks.
Non ci pensai due volte, con un balzo ero già in groppa all'animale e, subito dopo essermi assicurato che Polonia fosse protetto tra le mie braccia e non rischiasse di cadere durante il viaggio, incrociai di nuovo lo sguardo con l'ungherese, ancora sorridente, ma stavolta spiccava in lei una nota di preoccupazione.
- fate attenzione... - ci disse sospirando. Dopotutto quella non era un area sicura. Sicuramente la foresta davanti a noi, che poco dopo avremmo dovuto percorrere alla ricerca della salvezza, brulicava di soldati, di sentinelle di entrambi i fronti. Avevamo la pistola, si, e nel peggiore dei casi avrei fatto di tutto affinché a Polonia non venisse più fatto del male.
- a-anche tu... stai a...attenta...- la vocina di Polonia, per tutto il tempo rimasto in silenzio ad accarezzare la criniera del cavallo, giunse alle mie orecchie come una melodia in quella notte stellata e tranquilla. Il mio Feliks, mette sempre gli amici davanti a lui, mette sempre l'amore davanti a tutto. Polonia è un ottimo amico.
- Lo farò, lo sai che lo farò!- ovvio, Ungheria non è una ragazza che si fa mettere i piedi in testa. Se non le andava a genio di essere costretta ad essere loro alleata non se ne sarebbe certo stata in silenzio. Ma il suo comportamento mi preoccupava. Per quanto avessimo fiducia in lei sia io che Feliks avevamo appreso, in quei giorni, che con quei pazzi non si scherzava, che non si facevano alcun problema a provocare vero dolore a chi rappresentava per loro un ostacolo. Avevamo capito che quei mostri non avevano coscienza e che dovevano essere fermati il prima possibile. - ora però andate, forza!- l'ungherese stava iniziando a preoccuparsi. Prima o poi il caos che lei e lo stranamente comprensivo prussiano avevano creato sarebbe finito e a quel punto la fuga sarebbe stata impossibile.
Annuii leggermente, sussurrando un ultimo grazie. Diedi una carezza alla testolina del mio amato Feliks, per poi prendere con decisione le redini del cavallo e, senza esitazione alcuna, spronare con tutte le forze l'animale a muoversi, muoversi più veloce possibile, correre lontano da lì e portare finalmente al sicuro il mio Feliks. Il cavallo, nonostante l'aspetto debole, partì spedito, cominciando a portarci lontano da quell'inferno veloce più che poteva. Non mi voltai mai, mai, volevo solo scappare. Sentivo la brezza tra i capelli, vedevo davanti a me quel sentiero sterrato e lasciato a se stesso, quel sentiero malridotto che avrebbe portato l'amore della mia vita in salvo. Correva il cavallo, correva e io non pensavo a nulla se non al guidarlo. Polonia si teneva con le poche forze stretto a me, sentivo le sue manine fragili stringere la stoffa della camicia delicatamente, quasi a chiedermi disperatamente di non lasciarlo più, di rimanere così, stretti l'uno all'altro per sempre. Sentivo il suo respiro debole ed affaticato, sentivo il suo dolore fisico, soffrivo con lui ogni sua pena, ma, allo stesso tempo, condividevamo la speranza di essere di nuovo liberi. La speranza che ora fosse tutto finito, che quell'incubo fosse passato. Ma quell'incubo era appena iniziato e noi lo sapevamo bene. Gli spari in lontananza, il cielo nero, oscurato dal fumo di un incendio che, a causa delle battaglie, stava ardendo in quella ricca foresta, ne erano la prova. La guerra non sarebbe finita senza un vincitore e, ormai, attaccato da ben due eserciti, la misera speranza che avevo di veder uscire Polonia vittorioso da questa guerra cominciavano a sgretolarsi. Ma le sue speranze no, mai e poi mai si sarebbe arreso. Sentivo il suo dolore mentre cercavo di portarlo più lontano possibile da quell'accampamento di demoni. Sentivo i suoi gemiti trattenuti a stento, sentivo il suo corpo tremare nella frescura di quella notte di metà Settembre. Lo sentivo arrancare ad ogni respiro, sentivo la sua stretta a me più forzata, sentivo che tutto gli provocava dolore. Ma restava in silenzio, limitandosi a cercare calore e forza in me, nel suo cavaliere, nel suo guerriero, un guerriero debole e idiota. Lo sapevo che soffriva, sapevo che l'unica cosa che desiderasse fosse fermarsi, fermarsi e lasciarsi andare tra le mie braccia. La consapevolezza che tutto ciò in cui aveva sperato era finito lo distruggeva. Ma non temeva il dolore, non chiedeva aiuto. Andava avanti in silenzio, combattendo quella battaglia interiore con la sua sofferenza, quell'ennesima battaglia che pretendeva di vincere. Una battaglia necessaria per procedere in quella guerra, una battaglia necessaria per la salvezza delle sue terre, del suo amato popolo, di tutto ciò che, con fatica e orgoglio, aveva costruito. Oh, quanto volevo fermarmi in quel momento, fermarmi e baciarlo, coccolarlo dargli quanto più amore potessi. Quanto avrei voluto placare le sue sofferenze con un abbraccio, con un bacio, con un gesto d'amore. Quanto avrei voluto fermarmi e vedere il suo sorriso allegro al posto di sentire quei gemiti strozzati che in quella fuga disperata, mi giungevano tristi alle orecchie. Ma non potevo, non potevo ancora fermarmi. Nonostante fosse già sparita da un po' la luce dell'accampamento, coperta dai rami di quell'enorme moltitudine di alberi, e nonostante le voci di quei feroci mostri non mi giungessero neanche lontanamente, sentivo le loro presenze. Li sentivo dietro di me, avevo quell'orribile sensazione che ci stessero inseguendo, che ci avessero scoperto. Avevo quell'orribile sensazione di non essermi allontanato neanche di un metro, che in realtà il cavallo fosse fermo, che tutta quella fuga fosse solo frutto della mia mente disperata. Volevo solo portarlo lontano, non riuscivo a pensare ad altro. Polonia, il suo fragile corpo, la sua anima tormentata erano una grande tentazione, ma era per lui che non dovevo fermarmi, era per vedere il suo corpo guarito, per vedere la gioia sul suo viso che andavo avanti. Mi limitavo, a volte, a lasciare per qualche attimo le redini dalla mano sinistra, portandola rapidamente a lui, accarezzandolo quasi con foga, senza che riuscissi a nascondere la mia ansia. "Va tutto bene", sussurravo, "siamo quasi arrivati", ma quella fuga sembrava non terminare mai. Procedemmo in silenzio, lui stretto a me, io con i denti stretti, con le redini tra le mani e la strada per la salvezza che si avvicinava a noi ogni metro che quella bestiola percorreva. M'illusi quasi che quella fuga potesse procedere liscia come l'olio, senza ostacoli. Che sarebbe stata solo questione di un'oretta massimo di cavalcata per arrivare all'accampamento delle truppe polacche stremate, ma animate dallo stesso coraggio che ogni giorno, da quel primo Settembre, aveva dimostrato il mio Feliks. Ma, ormai era chiaro, non era destino, quell'autunno, che qualcosa ci andasse bene. Dopo una ventina di eterni minuti passati a cavalcare senza sosta incontrammo un'ostacolo, un gran bell'ostacolo. Feci appena in tempo a tendere le redini e a fermare a stento il cavallo per non cadere in un impetuoso torrente che, in maniera improvvisa, era comparso attraverso i rami degli alberi, sbarrandoci la strada. Mi presi un bello spavento in quel momento, il cavallo di fermò a pochissimi metri dalla sponda e la fermata brusca scosse abbastanza Feliks che, ormai, si era bello che rilassato stretto a me. Bene, come dovevamo procedere adesso?
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