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La calma prima della tempesta

Polonia si staccò dal nostro abbraccio dopo qualche minuto. Non parlavamo, non avevamo bisogno di parole. Soffrivamo entrambi e quell'abbraccio, sentire l'uno la presenza dell'altro, era molto importante per noi, valeva più di mille parole, più di mille sguardi. Quando Feliks decise di separarsi da me lo lasciai andare mal volentieri, assaporando quella sua candida bellezza, rovinata dalle bende, quasi mangiandolo con gli occhi. In effetti, dopo quelle due settimane letteralmente a pane e acqua, avevo fame sul serio. E come me, suppongo l'avesse anche Feliks.

- Bene allora... andiamo...- fece un respiro profondo e, prima che potessi rendermene conto, era già sceso dal letto piantando i piedi a terra e seppur a fatica si era alzato.

- Fermo!- mi opposi cercando di rispingerlo delicatamente a sedere sul letto. Ovvio, fuori la situazione era disperata e, per Feliks, prima interveniva e meglio era. Ma stava ancora male, le ferite erano ancora dolenti e, anche se sarebbero guarite, per il suo corpo speciale, prima di una settimana, non poteva partire immediatamente per la guerra in quelle condizioni. Doveva riposare almeno un'altra notte, rimettersi quel che era necessario. Per quanto il suo istinto lo spingesse a partire immediatamente io non potevo permettere che combattesse in quelle condizioni. Era già costato tanto al mio cuore concedergli di partire con me al suo fianco, ora pretendevo, per l'amor del cielo, che si riprendesse almeno un poco.

- Sto bene...- Feliks cercò di raggirarmi e di allontanarsi, ma i suoi passi erano lenti ed incerti, non ebbi quindi problemi a fermarlo. Gli presi le mani, lo strinsi a me e con voce supplichevole sussurrai disperate parole al suo orecchio.

- Ti prego, Po...- Polonia, sentendo quel mio tono serio ed affranto, si rilassò, smettendo di opporre resistenza, restando immobile in ascolto. – Solo questa notte, ti prego... Devi riprenderti, altrimenti non potrai combattere...- cercai di convincerlo con quelle parole e con tono supplichevole. – Non li aiuteresti, Po... devi aver cura di te...-. Notai che Feliks si era rilassato tra le mie braccia, probabilmente capendo che non l'avrei lasciato andare, che l'avrei tenuto con me, così ne approfittai per stringerlo in un lieve abbraccio, giusto per scaldare quel suo povero cuoricino distrutto. – Fallo per me... Ok?- gli presi dolcemente il mento tra l'indice ed il pollice, sollevandogli appena il viso, facendo incontrare i nostri sguardi. Gli occhi di Feliks erano spenti, non mi era difficile capire che quella decisione era per lui una sofferenza. Avrebbe abbandonato la sua nazione per un'altra notte, pensava, avrebbe lasciato che in quelle ore altri suoi soldati morissero, si vergognava, ma era consapevole che la scelta di restare anche quella notte all'accampamento, avrebbe fatto solo bene a lui e di conseguenza al resto della Polonia.

- Ok...- sospirò, gettandosi tra le mie braccia, cercando in me il conforto di cui aveva bisogno dopo quella triste decisione. Ed io non mi tirai indietro. Lo strinsi a me, accarezzandogli i capelli, attento alle ferite che aveva sulla testa, dandogli inoltre un tenero bacio sul naso.

Lo riportai a sedere sul letto, accomodandomi al suo fianco e prendendogli le mani. Feliks le strinse un po', per poi avvicinarsi leggermente a me, poggiando la testa sulla mia spalla. Rimanemmo così, ad accarezzarci le mani, per un po' quando, nella tenda, entrò una giovane infermiera dai capelli scuri, legati in due piccole trecce, accompagnata dalla cara soldatessa Zofia. Appena le vidi, ovviamente, capii che le due si stavano dirigendo verso di noi. La giovane infermiera portava tra le mani un piatto dai bordi alti, quelli che si usano per servire il minestrone o le zuppe, mentre Zofia portava una piccola caraffa d'acciaio. Dal piatto saliva un invitante nuvoletta di vapore. Solo quella bastò a farmi capire che in quel piatto ci fosse cibo caldo, che non vedevo da più di due settimane e si intensificarono i crampi allo stomaco che protestava per la fame. Sfiorai il viso di Feliks con le dita, alzandogli il mento lentamente per far incontrare nuovamente i nostri sguardi.

- Hai fame?- chiesi con un fil di voce, quasi come fosse un sussurro, indicando le due giovani che s'avvicinavano a noi, facendogli capire che, quello che almeno sembrava cibo caldo che portavano fosse destinato a lui.

Polonia sollevò il viso, scrutando le due con gli occhi verdissimi, colore della speranza, la speranza che lo animava. Strinse le mie mani, emozionato, agitando la testa su e giù, annuendo energicamente. Finalmente vedeva del cibo, del cibo vero, non il "pane" di pietra nazista, e, a quella vista, non poté più placare la fame che lo tormentava da due settimane. Zofia mi si avvicinò con un sorriso preoccupato, salutando, disciplinata, la sua nazione, Polonia, mettendosi sull'attenti.

- Sergente Zofia Zetiek, signore, al vostro servizio - si presentò la soldatessa dai capelli d'orati, facendo avanzare al suo fianco la graziosa infermiera dagli occhi grigi e trasparenti come il ghiaccio, ma amichevoli ed aperti. – Lei è una volontaria, Kasia Prochniak, le abbiamo portato un pasto...- l'infermiera Kasia, incitata da un breve cenno della soldatessa al suo fianco, mi passò la zuppa ancora fumante ed io la poggiai sul letto, tra me e Feliks, ringraziandola con uno sguardo grato e con un ampio sorriso. – La prego di scusarci... non è molto, ma... come può vedere la situazione non è delle migliori.- Zofia aveva uno sguardo imbarazzato, quasi si vergognava, si sentiva sciocca a dare solo quella misera zuppa alla persona che più ammirava, la persona più importante della Polonia, Feliks.

- Ti prego io, sergente, di non darmi del lei...- ridacchio Feliks, sussultando per il dolore delle ferite ancora non del tutto guarite. – Ecco, non ci sono... tipo, abituato...- arrossì poi il mio polacco, pronunciando quell'innocente "tipo" con tanta naturalezza e dolcezza che non potei far a meno che rivedere in quella solitaria parolina tutta l'innocenza che il mio amato, nel corso di tutti quei secoli, tra guerre e dolore, aveva cominciato a perdere.

Feliks aveva sempre odiato sentirsi dare del lei. "Mi fa sentire vecchio", si giustificava, arrossendo. Ovvio, d'aspetto non lo dimostra, ma Feliks ha più di 1000 anni suonati, non gli si può certo dire che sia un giovincello, nonostante sia bloccato in un corpo da eterno 19evenne, ma è pur sempre vero che, diversamente da me, Feliks è sempre rimasto un bambino. Penso non abbia avuto una bella infanzia, penso che da piccolo non abbia mai avuto modo di giocare come ogni bambino. Ma su quel visino delicato, era sempre stampata quell'espressione ingenua ed infantile da bambino, anche quando, come in quel momento, viveva situazioni dure e dolorose che un bambino non potrebbe nemmeno immaginare. L'appellativo "signore", lo riconosco, non gli si addiceva, né d'aspetto, né per il carattere.

- Oh, ecco, mi scusi... cioè scusa...- Zofia divenne paonazza, abbassando lo sguardo, come se si sentisse a disagio. Era stata addestrata per essere disciplinata ed educata, con chi merita, chi non meritava avevo avuto modo di vedere quanto fosse frizzante il suo caratterino, e, probabilmente, questo "cambio di programma" l'aveva colta di sorpresa. – ecco...- si voltò verso la sua compagna infermiera, rimasta in religioso ed educato silenzio davanti a Feliks. – Possiamo andare, con permesso...- rivolto un secondo saluto militare a Polonia, la giovane soldatessa e Kasia si voltarono e cominciarono ad allontanarsi.

- Aspetta, sergente...- l'aveva richiamata Feliks con un fil di voce, tanto che temevo che Zofia non l'avesse sentito. Fortunatamente non ci fu bisogno di alzare la voce, il sergente si voltò verso di noi con aria interrogativa. – D...domani parto per Varsavia... puoi occuparti tu di farmi ricevere una nuova uniforme?- Polonia sembrava triste, quasi nostalgico di poter rivedere la sua capitale, spaventato, forse, di ritrovarla in condizioni peggior di quanto immaginava.

- Ma...- dicemmo praticamente in coro io e Zofia, scambiandoci uno sguardo preoccupato, mentre io accarezzavo con le mani tremanti le spalle del mio Polonia. Ne avevo già parlato con lui, sapevo che non potevo fermarlo, ma ancora l'idea di vederlo combattere ferito e debole mi lacerava il cuore. E, allo stesso tempo, dall'espressione del sergente, potevo intuire che anche lei non fosse per nulla d'accordo con l'idea di Feliks.

- Devo... lo so io, come lo sapete voi... non mi tirerò... indietro...- la voce di Polonia era rotta e triste, ma talmente sicura che né io, né Zofia, trovammo modo di protestare. Il mio stomaco bruciava come l'inferno sceso in terra e l'ansia che saliva, anche solo pensando a quanto avrebbe sofferto Feliks in battaglia, era come carbone puro che alimentava le fiamme. Zofia esitò, come a voler dire la sua, far sentire la sua opinione contraria ma, consapevole di non poter in alcun modo interferire con le decisioni della sua nazione e capendo, dal tono di Feliks, quanto quest'ultimo fosse convinto, abbassò lo sguardo sul pavimento, scrutandolo come fosse la cosa più interessante del mondo pur di non incrociare gli occhi spenti di Polonia.

- Sarà fatto...- rispose, facendo dietro front e s'allontanò con la compagna infermiera, svanendo tra la gente disperata che aveva trovato rifugio nella tenda, lasciando me ed il mio Po soli, con un piatto invitante e caldo di zuppa.

Afferrai il piatto, non badando a quanto bruciasse ancora, probabilmente era stata preparata solo pochi minuti prima che ci venisse consegnata, impugnando il cucchiaio. Per quanto fossi affamato, per quanto quell'ottimo odore di verdure fresche bollite mi tentasse, per quanto il mio stomaco facesse i capricci, bruciando e contorcendosi come in preda ad un'atroce agonia, non mi sarei mai permesso di toccare quel ben di Dio prima del mio Polonia. I suoi occhi brillavano di una felicità sovrumana. Non diceva nulla, non chiedeva di poter favorire per primo, ma sul suo viso magro quell'espressione ansiosa non poté non sciogliere il mio cuore pazzo di lui. Presi col cucchiaio un po' di zuppa soffiandoci su leggermente, nel tentativo di raffreddarla un po', per poi avvicinare il cucchiaio alle labbra di Feliks.

- Feliks... ehm... apri la bocca...- sussurrai al suo orecchio mentre lui, con un'espressione quasi di protesta, abbozzò un sorriso, soffiando a sua volta sulla zuppa ancora fumante.

- Come... come quando eravamo piccoli..?- ridacchiò, allontanando con un elegante gesto la mia mano dalle sue labbra. – P... Prima tu... hai faticato tanto per portarmi qui...- mi sorrise nuovamente con sguardo soddisfatto, smettendo di soffiare e guardando la zuppa, evidentemente più fredda, senza più il fumo a svolazzare sopra ad essa, . – Ecco... ora dovrebbe... andare...-

Con una risatina, poggiai il piatto di zuppa sulle gambe e gli accarezzai i capelli con la mano libera. Era talmente adorabile che, a vedere quel sorriso sulle sue labbra, riuscii per un momento a togliermi dalla testa il ricordo della guerra e a godermi quei piccoli dolci momenti.

- Non ho fame...- mentii per il suo bene, riavvicinando la zuppa alla sua bocca. – Come quando eravamo piccoli....- sorrisi ancora, rivedendo davanti ai miei occhi la nostra infanzia felice e spensierata, tanto lontana quanto nitida, triste e felice.

Feliks non protestò una seconda volta, spalancò ansioso la bocca ed accolse il cucchiaio, gustandosi quell'invitante zuppa. Inizialmente, dal suo viso, mi sembrava più che chiaro che apprezzasse quel pasto, sorrideva, ma, dopo qualche attimo, la sua espressione mutò in una smorfia di dolore trattenuta a stento mentre, tremante, si piegava in due con le mani premute sullo stomaco. Inutile dirlo, vederlo così mi fece allarmare e non poco. Poggiai immediatamente da parte la zuppa, cingendogli le spalle con un braccio ed accarezzandogli i capelli.

- C... cosa succede?!- quasi urlai, divorato dal panico, sollevandogli il viso, ancora dilaniato dal dolore, cercando un contatto con i suoi occhi. Oh, perché non poteva stare tranquillo neppure per un momento il mio Polonia?

- L... Lo stomaco...- sussurrò con voce tramante, premendo forte le mani sullo stomaco. Molti dei colpi che, solo il giorno prima, gli aveva inflitto Russia erano stati diretti alla schiena e al ventre, aveva lesioni ancora non guarite, non poteva mangiare, non senza uno sforzo inumano. Ma doveva mangiare, non poteva resistere oltre a digiuno. Le sue mani erano così magre da sembrare di carta pesta, rovinate e fragili, le sue braccia tanto sottili che potevo tenergli l'avambraccio stretto in un pugno. Ma non volevo soffrisse ancora, non in quel momento di calma.

- Feliks... Ti prego...- gli presi la mano, accarezzandola con il pollice, cercando un contatto visivo con lui. – Solo un po', ti prego...- afferrai nuovamente il piatto di zuppa, tirandone su un cucchiaio pieno, avvicinandolo esitante alle sue labbra, come in attesa di un suo consenso che, ne ero consapevole, non sarebbe arrivato mai.

- N... Non ce la faccio...- mugugnò, cercando di tirarsi su stento, allontanando il cucchiaio con un gesto della mano. – Mangiala tu... n... ne hai bisogno...- tirato su il viso e sforzando un lieve sorriso cercò di apparire sereno, voleva illudermi che il continuo digiuno non lo scalfisse, ma non potevo lasciare che si arrendesse così. Aveva tanto a cuore il suo popolo, mai abbassava la testa davanti al nemico, perché, allora, non voleva vincere quella lotta per se stesso? Perché non si curava di se?

- Ti prego...- insistetti, con tono roco e supplichevole, tenendogli la mano stretta, per sentire la sua presenza e dargli forza con la mia. – Sei forte, Po... Io conto su di te... non deludermi.- penso sia stato molto azzardato da parte mia tirare in ballo l'idea che potesse, in qualche modo, essere per me una delusione, ma fui soddisfatto di constatare che il mio rischio aveva portato i suoi frutti. Feliks dava sempre il massimo in ciò che faceva, nonostante, spesso, i suoi atteggiamenti lo facessero sembrare molto superficiale, odiava l'idea di mancare in qualcosa, l'idea di aver sbagliato. Probabilmente la paura di deludere qualcuno arrendendosi, deludere me, aveva risvegliato una parte del suo animo forte e combattivo, una parte di lui che ardeva e gli dava energia vitale, sempre e comunque.

- Ci provo...- sospirò, aprendo esitando le labbra ed accogliendo un nuovo boccone. Ci avrebbe provato e costi quel che costi ci sarebbe riuscito. Quando si stuzzica la sua fora di volontà il mio fragile e delicato Polonia diventa più potente di un vulcano attivo, diventa il più coraggioso tra i guerrieri e lotta con valore contro ogni ostacolo. Amavo quella parte di lui, un pregio di onore e forza, ma anche un difetto controproducente in quanto Feliks non sapeva riconoscere i suoi limiti o, comunque, non badava di darsene qualcuno. E questo lo aveva portato a soffrire in passato, lo faceva soffrire in quel momento e lo avrebbe fatto soffrire anche in futuro.

Polonia, boccone dopo boccone, tra gemiti strozzati e quant' altro riuscì a finire metà della zuppa, quella che si era prefissato di mangiare, lasciandosi poi andare sul letto con un sospiro sollevato. Ridacchiava, forse era soddisfatto del suo operato, ma era stanco, quella giornata era passata rapidamente ed alla fine era già giunto il tramonto. Quella sarebbe stata l'ultima notte di calma per noi, dovevamo riposare, lui soprattutto. Il giorno dopo ci attendeva l'inferno... letteralmente.

- Ce l'ho fatta...- Feliks, rannicchiato tra le coperte, premendo le braccia sullo stomaco ancora indolenzito, mi stava sorridendo. Un sorriso sincero e grande, di quelli che ci si concede dopo una grande vittoria, uno di quei sorrisi speciali e rari che ti migliorano in un attimo un'intera giornata.

- Ce l'hai fatta.- sottolineai, fiero, ricambiando quel caldo sorriso. – Lo sapevo che ce l'avresti fatta.- Gli accarezzai la guancia dolcemente, sentendo sotto la pelle il rilievo di una delle più piccole ed invisibili cicatrici da poco inflittegli. Non si notava quasi più quel taglio lungo la guancia, la sua pelle bianco latte teneva ben nascosta la cicatrice.

Feliks non aggiunse altro. Io iniziai a consumare la mia parte di zuppa, gustandomi sollevato quel dolce sapore di cibo caldo. Non posso descrivervi a parole ciò che provavo, non penso che voi, fortunati lettori, che avete la possibilità di vivere in pace e mangiare ogni giorno le ricette deliziose della vostra mamma, possiate capire. Erano 18 giorni che mangiavo solo pane talmente duro e vecchio da poter essere a malapena definito cibo, così disgustoso ed insipido da avermi rovinato le papille gustative, così rancido e pessimo che mangiarlo, invece di tenermi in forza ed in salute, aveva solamente peggiorato le condizioni del mio stomaco infuocato. Ricordo che, per la prima volta, gustai veramente il cibo con quella zuppa. Di solito, quando si mangia, non si pone realmente attenzione al sapore, non si analizza. Si mangia badando al sapore generico, e ci si ingozza così velocemente da non aver neppure il tempo di pensare. Quella volta, per me, non fu così. Fin dal primo boccone mi concentrai sull'infinità di sapori riunite in quel brodo. C'erano carote, ricordo, patate, tante verdure, e riuscii a riconoscere tutte. Il sapore del cibo vero mi mancava al punto che temevo addirittura di averlo dimenticato, per me fu come fare una nuova ed esaltante scoperta. Mi sentivo allegro come un bambino, mi sentivo sorpreso, ero affascinato dalla varietà di quei sapori che avevo sempre sentito, ma che non avevo mai realmente conosciuto. Ci si rende conto della grandezza delle cose che si ha solo quando le perdiamo. Io imparai questa lezione nel corso di quegli anni a mie spese, questo fu solo il primo e più misero esempio.
Finita la mia gustosa e delicata zuppa, delle giovani infermiere iniziarono a farsi largo tra i pazienti con grandi secchi d'acqua limpida e pulita, offrendone a tutti con dei mestoli argentati. Attesi che arrivassero da noi ed aiutai il mio amato a bere un po', dissetandomi a mia volta dopo di lui. Dopo la chiacchierata con Francia ed Inghilterra ammetto che avevo la gola piuttosto secca, una bella bevuta mi fece bene preparandomi per la prima, e ultima, calma dormita di quel mese d'inferno.
Mi misi in piedi, scendendo dal letto di Feliks, apprestandomi a mettermi a riposare a terra, come la sera precedente, quando la manina sottile e fragile di Feliks mi afferrò delicatamente il polso.

- Nie...- sussurrò con un fil di voce, stringendo appena la presa, come a voler sembrare più autoritario e deciso. – Rimani qui con me... c'è tanto spazio tra le coperte...- mi tirò un po' verso di se, riportandomi a sedere al suo fianco.

Così quella notte, intenerito dalla sua supplica, la passai col sorriso, con il mio amato stretto tra le braccia ad allontanare dal mio cuore l'oscura paura del futuro di guerra che ci attendeva.

***Angolo dell'autrice***
Eh... bho (?) Prima o poi inizierà l'azione, ceH, tranzolli. #linguaggiodastradaICSDILOL

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