Capitolo 1
Ti chiamerò Viandante,
perché in tutta la tua vita non hai fatto altro che viaggiare, viaggiare per scappare,
viaggiare per rincorrere un sogno.
Non ti sei mai fermata
perché tutto ciò che avevi era all'interno di te.
Ti chiamerò Viandante perché non ho mai saputo il tuo nome, così desiderosa di andare via non hai mai rivelato la tua vera identità.
Viandante perché nessun posto è casa tua, ma tutto il mondo lo è.
Ti chiamerò Viandante.
Ti chiamerò Viandante,
anche se forse non potrò mai chiamarti per davvero,
dato che non sarai mai così vicina da potermi sentire.
Diversi luoghi, diverse esperienze che ti hanno portato ad essere quella che sei.
Hai conosciuto così tante persone,
tanti caratteri e personalità diverse.
Sei passata da un'anima ad un'altra, eppure non hai capito ancora chi sei.
Ti chiamerò Viandante perché mentre tu vai via,
il tuo profumo resta come una scia dietro di te.
Ti chiamerò Viandante e parlerò di te al mondo,
un mondo che conosci come il palmo della mano,
un mondo che però non ha mai conosciuto te e mai riuscirà a farlo.
Ti chiamerò Viandante perché so che non smetterai mai di viaggiare,
perché questo mondo è tanto grande da occupare una vita,
e perché nulla finisce con esso.
Ti chiamerò Viandante perché continuerai a vagare per terre inesplorate,
ed anche se questo posso solo immaginarlo, so per certo che nel mio cuore,
in me,
rimarrà sempre questa visione di te.
Chiusi con un sospiro il diario sul quale stavo scrivendo e guardai il mare. Quella sensazione travolgente che mi pren- deva ogni volta che mi trovavo davanti a quella magnifica distesa azzurrina, mi catturò anche in quell'istante. Senti- vo la brezza scompigliarmi piacevolmente i capelli, il sale invadermi le narici, e il suono lento e costante delle onde inebriare i miei sensi. Tante volte mi ero ritrovata a domandarmi per quale mo- tivo mi trovassi così in sintonia con un luogo del genere, quale fosse la spiegazione logica al richiamo che sentivo. Come mai l'acqua mi attirava come una calamita?
L'unica favola che avevo continuato a raccontarmi da quando ne avevo memoria, era che in una vita passata ero stata un pesce, o magari una sirena.
E da bambina lo avevo trovavo così ironico e allo stesso tempo così amaramente impossibile, che come una brava sognatrice, ci avevo creduto.
Osservai il bagliore del sole: creava brillanti fantasie sulla superficie serena dell'acqua, illuminando i miei occhi di una luce che ormai avevano quasi del tutto perso.
Da molto tempo, infatti, non potevano fare altro che vive- re di riflessi, perché non c'era nulla che riuscisse a riportarli all'originale splendore della vita.
Mi chiedevo se la gente lo notasse così come ero solita fare io davanti allo specchio.
Mi chiedevo se ci fosse qualcuno che comprendeva quello che provavo. La disperazione che mi avvolgeva con una potenza tale da non riuscire a sentire più nulla, come se mi avesse intorpidito i sensi ed io non avessi modo di svegliarli, seppur ci provassi con tutte le forze che mi erano rimaste.
Un gabbiano planò accanto a me con uno stridore di ali, ma io rimasi ferma dov'ero, osservandolo camminare di qua e di là sulla sabbia fresca. Per un secondo i suoi occhi neri ed imperturbabili mi fissarono placidamente, poi, le sue ali si aprirono, facendogli spiccare il volo.
Seguendo il suo esempio, salutai il paesaggio che mi aveva cullata in quelle ore, e presi a camminare a passo spedito ver- so la strada principale. I piedi affondarono nella sabbia fred- da, mentre i granelli si incastravano tra le dita, producendo un rumore soffocato, ed i miei passi si facevano sempre più svelti.
Guardai distrattamente l'orologio e mi resi conto di essere in ritardo, per l'ennesima volta. Succedeva spesso nell'ultimo periodo, forse perché scrivere, così come leggere, riusciva sempre a strapparmi via dalla realtà, sottraendomi ai canoni del tempo e dello spazio.
Mi dissi che se non fosse stato per la disperazione del mio datore di lavoro, e per il suo affetto indiscutibile nei miei con- fronti, probabilmente sarei già stata licenziata. Ma nessuno voleva lavorare in una libreria, o almeno, non di quei tempi. Ormai facevamo parte di un mondo tecnologico, dove basta- va aprire una pagina internet per trovare l'informazione che cercavi, dove i romanzi potevano essere facilmente letti su un apparecchio elettronico, privo di ogni anima e spessore. A cosa servivano i libri, se avevi un computer o un cellulare?
Eravamo in piena estate, e gli unici clienti che avevamo avuto nella scorsa settimana, erano stati una coppia di teneri anziani che avevano scambiato il nostro locale per una gelateria.
Ricordavo di essermi scusata, e sorridendo amaramente avevo indicato loro il palazzo alla fine della strada. Ruben, al contrario, aveva cominciato a imprecare nel suo dialetto stretto, e frustrato dalla situazione, era uscito dalla porta sul retro per andare a prendersi un caffè.
Lo avevo guardato, mentre afferrava un pugno di monetine dal barattolo delle mance, e si era avviato fuori a passo spedito, senza voltarsi indietro.
Da quel giorno era stato in libreria lo stretto indispensabile, lasciandomi sola a gestire tutto. Forse per lui era troppo difficile starsene a guardare mentre il frutto del suo lavoro colava a picco.
«Sei andata di nuovo in spiaggia all'alba?».
Diedi un'occhiata all'angolo della sala, con la mano ancora salda sulla maniglia della porta principale. Il sudore mi imperlava la fronte, e la maglietta a maniche corte che avevo indossato prima di uscire di casa, adesso mi sembrava essere troppo calda e pesante.
Ruben alzò un sopracciglio, ticchettando le dita sulla carta stropicciata del giornale che stringeva tra le mani. Era la pagina della cronaca, ma distolsi frettolosamente lo sguardo, spostandolo invece, sul viso dell'uomo. Ne analizzai i dettagli come se lo stessi incontrando per la prima volta, con i capelli brizzolati tagliati a spazzola, e le rughe ad incorniciargli gli occhi scuri. Le labbra piene erano curvate in una mezza smorfia di fastidio, la stessa che aveva sul volto da svariati mesi, quasi fosse parte integrante del suo aspetto fisico.
Non c'era di che lamentarsi se la gente, vedendolo lì seduto nell'angolino più tetro della stanza, preferiva rimanere a guardare la nostra merce dalla vetrina esterna. Con il suo aspetto burbero e l'abbigliamento austero probabilmente me ne sarei tenuta alla larga persino io, se non lo avessi conosciuto da una vita.
Anche la libreria non era delle più accoglienti, e si accosta- va perfettamente alla personalità trasandata del suo proprietario. le ragnatele decoravano le crepe dei muri, rendendo opaca e ombreggiata la vernice grigio topo sbiadita dal tempo; il pavimento, seppur pulito, dava l'impressione di essere perennemente impolverato; e l'odore acre della muffa nasco- sta dietro le enormi scaffalature in legno, aleggiava nell'aria.
C'era stato un tempo, in cui quel posto, così come il suo padrone, aveva vissuto il massimo del suo splendore: con i libri che impregnavano l'aria del loro dolce profumo di carta ancora calda di stampa, illuminati dal sorriso dolce di Ruben.
Ricordavo ancora quei giorni, come fossero parte di una magica e colorata fiaba, raccontata da una piccola me, piena di meraviglia e stupore: avevo appena imparato a leggere, e già il mio piccolo cervello non ne poteva più delle storielle per bambini che ci rifilavano le maestre.
Così, in un arido pomeriggio estivo, avevo costretto mia madre a portarmi in una libreria vera. Quella libreria.
Riuscivo ancora a percepire chiaramente l'odore agrodolce della carta che invadeva l'aria, il silenzio rischiarato dal rumore soffice delle pagine sfogliate e la voce calda e roca di Ruben, che serviva i suoi clienti come fossero parte della sua famiglia. Mi ero sentita proprio così quando mi ero avvicinata alla cassa con aria furtiva, facendomi scudo con la gonna di mia madre alla ricerca di protezione. Ruben mi aveva sor- riso intenerito e aveva preso tra le mani il volume che avevo scelto con pazienza dagli scaffali gremiti. A pensarci adesso, non ricordavo neppure quale fosse il titolo. Sembrava fosse passata una vita da quel giorno.
Ricordavo di esserci tornata svariate volte nelle settima- ne successive, e senza rendermene conto, le settimane erano diventate mesi e poi anni, ed io avevo trovato quel posto sempre più famigliare.
Era lì che avevo festeggiato tutti i miei compleanni dall'età
di sette anni, era lì che avevo conosciuto Anita, la figlia del proprietario, che poi era diventata la mia migliore amica, ed era sempre lì che mi ero presa la mia prima cotta. Sebastiano: il fratello maggiore di Anita.
Mi aveva conquistata alla tenera età di nove anni, quando, intenzionato a prendere il mio libro preferito da un altissimo scaffale, si era sporto troppo dalla scaletta, ed era caduto inevitabilmente per terra, sbucciandosi il gomito. Non aveva versato nemmeno una lacrima, mentre il braccio gli cominciava a sanguinare. Mi aveva semplicemente sorriso, porgendomi il libro che tanto desideravo. Lui aveva dodici anni, all'epoca.
Sospirai. Quello sì che era stato un periodo felice della mia vita, ma poi era cambiato tutto. Tutto mi era crollato addosso senza che nessuno me ne desse un preavviso, senza che la vita mi mandasse un segnale.
Erano passati dei mesi, eppure a me pareva fosse passato un solo breve secondo da quella giornata di fine novembre, quando, dopo aver camminato per ore senza meta sul lungo- mare, con mia grande sorpresa, le nuvole avevano oscurato il sole pallido.
Non avevo neppure avuto il tempo di metabolizzare, che mi ero ritrovata a correre sotto il diluvio. La pioggia era tan- to fitta da oscurarmi la vista, mentre le scarpe si riempivano d'acqua e mi gelavano i piedi, facendomi tremare le labbra. Avevo cercato di stringermi le braccia intorno al busto, per mantenere il più possibile il calore sulla mia pelle, ma era stato tutto inutile. Era come se qualcuno mi avesse immerso in una vasca piena di ghiaccio, e mi stesse tenendo giù con la forza.
E un po' mi ero sentita rassicurata, da quella pungente sensazione di dolore; per diversi minuti mi aveva fatta distrarre dal vuoto che avevo dentro.
Non sapevo di avere una meta, eppure quando mi ero ritrovata davanti alla vetrina illuminata della libreria, mi ero accorta che quello era l'unico posto in cui sarei sempre tornata: la mia vera ed unica casa.
Quando Ruben mi aveva vista, gocciolante d'acqua e la- crime nell'ingresso, mi era corso incontro e mi aveva avvolta nel suo giubbotto pesante. Non aveva detto nulla. Nessuna parola di conforto, nessuna domanda, nessuna predica. Mi aveva guardata con i suoi soliti occhi gentili e mi aveva supportata, quasi sapesse quello che avevo dentro. Con il senno di poi, mi resi conto che mia madre doveva averlo chiamato, e la cosa non avrebbe dovuto affatto sorprendermi.
«Buongiorno, Ben» salutai, buttando la borsa sul pavimento e accasciandomi su una poltrona accanto alla porta principale, scacciando via il ricordo del mio passato, per con- centrarmi sul mio presente.
«Sai, non hai risposto alla mia domanda» mi sgridò bonariamente. Io sbuffai.
«E quale sarebbe stata questa domanda, di grazia?» risposi ironica, facendolo ridacchiare per la mia acidità.
«Ti ho chiesto se sei stata in spiaggia anche stamattina» chiarì.
«Non ci sono molti altri posti in cui potrei essere andata, no?»
«Non usare quel tono deprimente qui dentro. È davvero poco professionale. E poi hai degli amici, no? Dovresti provare a chiamarli ogni tanto e passare del tempo con loro. Non potrai rintanarti in spiaggia o in libreria per sempre, lo sai?»
Sospirai per quella che mi sembrava la centesima volta nell'arco di dieci minuti e mi alzai stizzita dalla mia seduta, che produsse un suono stridulo mentre strisciava indietro di qualche centimetro.
L'uomo alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa con aria
stanca.
Per quanto fosse all'apparenza trasandato e per nulla propenso all'ordine, Ruben era davvero una persona generosa e cordiale. Mi aveva presa sotto la sua ala protettiva senza chiedermi nulla in cambio, facendomi sentire amata come fossi stata una seconda figlia per lui.
Ed io come lo ringraziavo? Riempendolo di preoccupazioni e paranoie senza senso.
In fondo aveva ragione, non me ne stavo facendo nulla della mia vita nell'ultimo periodo. Mi limitavo a trascinare il mio corpo inerme di qua e di là come un uccellino ferito; saltellando di ramo in ramo, cercando di tornare a volare, pur soffrendo di vertigini. Forse un tempo avevo avuto una giustificazione per quel comportamento, ma ora...
Ora tutto era diverso. Io ero diversa. Era giunto il momento di rimboccarmi le maniche e cominciare a vivere, volare di nuovo.
«Facciamo che ci provo domani» sbuffai buttandomi nuovamente a peso morto sulla poltrona, dando risposta ai miei stessi pensieri. Ruben proruppe in una risata roca e piatta.
Stette per dirmi qualcosa, ma non ebbi il tempo di sentirla, perché un altro rumore attirò la nostra attenzione. Un tintinnio lieve, inaspettato, tanto che mi ci volle qualche secondo per capirne la provenienza, e quando finalmente la trovai, mi voltai sorpresa verso la porta, sopra la quale ondeggiava ancora il campanellino che aveva suonato.
Un sorriso gentile mi si dipinse sulla faccia, mentre mi assaliva il sospetto che stesse per entrare qualcuno alla ricerca della solita gelateria.
A varcare la soglia, però, fu un ragazzo dai lineamenti famigliari.
Non mi ci volle molto a capire chi fosse: occhi grigi, capelli biondi e fisico asciutto. C'era solo un ragazzo che corrispondeva a tale descrizione.
«Buongiorno.» Matteo aveva un sorriso dolce ad illuminargli il volto, mentre esibiva fieramente una busta di carta. «Spero che non abbiate fatto colazione, perché ho portato i cornetti» continuò entusiasta, senza neppure darci il tempo di rispondere al saluto.
Lui era così, venticinque anni di innata bellezza e spensieratezza, compressi in un fisico da nuotatore, scolpito dagli anni di duro allenamento in piscina.
Trovava ogni cosa esaltante, e non aveva alcun timore di mostrarlo agli altri.
Un po' lo invidiavo; avrei voluto possedere la stessa legge- rezza. Affrontare la vita come faceva lui.
«Finirai per farti licenziare se continui a prendere i cornetti dal bar per portarli qui» dissi sommessamente. Matteo scosse la testa, facendo oscillare alcune ciocche chiare da una parte all'altra, che nascosero per un attimo la sua fronte, prima di essere rimesse in riga dalla sua mano.
Si affacciò, quindi, verso di me dandomi un innocente bacio sulla guancia, al quale io risposi tentando un sorriso sincero.
Eravamo amici da quando ne avevo memoria. I nostri genitori avevano condiviso per lungo tempo la passione per le auto d'epoca, e noi, piccoli ed annoiati, avevamo passato quel periodo a giocare insieme, durante gli infiniti raduni in giro per il paese.
«Mia zia non mi licenzierebbe mai per un paio di brioche ogni tanto. E poi mi spetta una consumazione al giorno, come ogni altro dipendente. Nessuno ha mai specificato chi la debba mangiare» rispose sorridendo sornione. Ridacchiai.
«Sei sempre il solito. Hai una risposta a tutto, non è vero?»
«Non direi. Non so ancora rispondere a quel problema di matematica che mi hanno assegnato in quarta elementare, per non parlare delle domande di attualità; non ne capisco niente di politica interna o dell'estinzione delle specie pro- tette» borbottò ironico, porgendomi la colazione, per poi voltarsi di nuovo verso l'uscita. Le sue visite improvvisate erano sempre così: entrava con una battuta ad effetto e se ne andava prima che io potessi anche solo godere per un po' della sua presenza. Oramai ci avevo fatto l'abitudine, soprattutto perché nelle ultime settimane quei momenti erano diventati parte della nostra routine quotidiana, quasi come se il mio amico tentasse di costruire qualcosa della quale non avrei potuto fare a meno, per ristabilire un po' della mia precedente vita, quella che avevo perso...
Lo salutai, agitando la mano in aria, ma lui era già fuori dalla porta.
Aprii la busta e ci guardai dentro, annusando il profumo dolce dei cornetti appena sfornati. Adoravo la sensazione di calore che riuscivano a procurarmi. C'era anche la solita bottiglietta di caffè, accompagnata da tre bustine di zucchero, e dei tovaglioli.
Feci per prenderne uno, ma la voce di Matteo, rientrato in fretta e furia nel locale, mi interruppe, facendomi rimanere con la mano tra la busta e il cornetto.
«Quasi dimenticavo. Stasera ci vediamo in piazzetta con gli altri. Non accetto un no come risposta.» Mi fulminò con il suo tipico sguardo da "non ammetto repliche", era quello che mi riservava ogni qual volta io mi rifiutassi di fare qual- cosa che voleva. Lo stesso che mi aveva spesso rivolto da bambino, mentre io mi lamentavo di non voler giocare in giardino con lui.
Sospirai, ritrovandomi ad annuire amaramente.
Sapevo che non mi avrebbe dato tregua fino a quando non avessi accettato, ed io non avevo alcuna voglia di discutere con lui, o con il resto della comitiva. Erano ormai mesi che mi astenevo dalla maggior parte delle loro riunioni infrasettimanali, ed anche se loro comprendevano ogni mia motivazione a riguardo, faticavano ad accettare il mio comportamento.
In fondo erano miei amici, e mi conoscevano abbastanza da sapere che senza di loro avrei potuto toccare il fondo in un baleno. E poi ci sarebbe stato anche Sebastiano...
«Ottimo. Ci vediamo alle nove e mezza all'angolo della strada» avvisò, riacquistando il suo solito sorriso, prima di andare via, senza attendere risposta.
La mattinata trascorse tranquilla, così come il pomeriggio, e a dispetto della settimana precedente, ci furono ben cinque clienti. Solo due di questi alla fine acquistarono della merce, ma era stato comunque piacevole avere qualcuno a gironzolare tra gli scaffali. Mi avevano dato modo di staccare per un po' gli occhi dal romanzo che stavo leggendo, e dal quale ero ormai assuefatta.
Persino Ruben mi aveva pregata di smettere di leggere, dopo averlo ignorato per l'ennesima volta, troppo immersa nella lettura per far caso alle sue parole.
«Sono anni che frequenti questo posto. Mi meraviglio di come tu non abbia ancora letto ogni singolo volume di questi scaffali» disse ad un certo punto, rubandomi il libro dalle mani, per guardarmi severo.
«I gialli non mi piacciono, e i classici mi mettono una certa ansia esistenziale» risposi acida.
«Ora puoi ridarmelo? Sono le ultime pagine del capitolo» continuai allungando il braccio per afferrare pigramente il tomo, senza successo. Ruben lo teneva troppo in alto.
«Finirai di leggere il libro quando sarai a casa. Ti ricordo che stai ancora lavorando.»
Sbuffai arrabbiata. Erano già passati alcuni anni da quando avevo trasformato il mio bighellonare tra gli scaffali in un lavoro retribuito.
Avevo cominciato a dare una mano durante le vacanze scolastiche, spolverando e sistemando in giro quello che potevo, soltanto per approfittare delle mie pause sgraffignando qualche libro e leggendolo sul retro, accompagnata da una lattina di tè alla pesca ghiacciata.
Arrivata ai diciotto anni, poi, mi ero ritrovata a supplicare il buon vecchio Ruben, affinché mi assumesse a tempo pie- no. Non era stato difficile convincerlo, dopo avergli esposto il mio punto di vista: sarei stata ugualmente lì tutti i giorni, perché non rendere le cose ufficiali?
E poi aveva dovuto definitivamente cedere, quando anche sua figlia si era coalizzata contro di lui, minacciandolo di non cucinare più la cena. Era stato esilarante vederla scioperare in cucina per i miei diritti. Sbuffai per l'ennesima volta e mi preparai ad affrontare le successive ore senza alcun supporto da parte dei miei adorati libri. Forse avrei potuto far finta di pulire il retro e leggere lì...
Rinunciai, mancavano soltanto due ore alla chiusura, e probabilmente avrei fatto meglio a seguire il consiglio del mio capo e lavorare, avendo ancora i nuovi arrivi da spostare in vetrina.
Mi arrotolai le maniche ai gomiti e attaccai il mio cellulare alle casse del locale, in modo che la mia musica si diffondesse nell'ambiente e mi alleggerisse l'umore. Ruben sorrise soddi- sfatto e lasciò che mi mettessi all'opera.
Chiudemmo la libreria alle otto in punto, mentre il sole estivo illuminava ancora la strada asfaltata, ed i turisti passeggiavano sui marciapiedi, con i loro sorrisi radiosi e la pelle abbronzata, fieri di esibire i propri corpi a chiunque avesse voglia di guardarli.
«Me ne torno a casa» dissi mettendo la borsa sulla spalla, fulminando con gli occhi una coppia di ragazzini che, mano nella mano, mi passarono accanto, sfiorandomi.
«Credevo avresti cenato da noi.» Ruben chiuse a chiave il negozio, per poi guardarmi in tralice.
Scossi la testa. «Anita me lo ha chiesto, ma ho bisogno di fare una doccia e cambiarmi, e a casa vostra ho solo il pigiama. E poi devo dare da mangiare a Jasper» risposi con una smorfia. Non mi andava di tornarmene a casa da sola anche quella sera, ma sfortunatamente non avevo altra scelta. Ru- ben annuì.
«Sai, sarebbe una buona idea per te, far aggiustare la moto di S...» Ma non terminò la frase, perché io stavo già camminando a passo svelto lontano da lui.
«A domani, Ruben!» urlai, abbastanza forte da farmi sentire da lui, ormai lontano.
Presi il cellulare e controllai le notifiche. Sebastiano mi aveva chiamata cinque minuti prima. Feci slittare il dito sul- lo schermo e lo richiamai, con un sospiro tremolante.
«Ehi, Mocciosetta. Matteo mi ha detto che stasera sei dei nostri.» La sua voce roca riempì i miei sensi per qualche secondo, portando un po' di luce nel mio umore nero.
«Vedo che le notizie viaggiano in fretta» risposi, fingendomi infastidita. Lo sentii ridacchiare, poi il rumore vivido dell'acqua sostituì quello sensuale del suo respiro.
«Ti passo a prendere tra mezz'ora. Penso sia sufficiente per renderti presentabile, no? E prepara la borsa, perché rimani qualche giorno da noi.» Non ebbi il tempo di ribellarmi a quell'idea o di rispondere in qualsiasi modo, perché Sebastiano chiuse la chiamata. Guardai incredula lo schermo del telefono, imprecando contro i suoi modi rudi, ma funzionali. Il suo atteggiamento rimaneva sempre freddo e pacato, an- che in situazioni che avrebbero richiesto dei modi più leggeri, ed era proprio per questo che non riuscivo ad allontanarlo da me.
Al contrario del resto delle persone che conoscevo, che mi avevano trattata con i guanti di seta nell'ultimo periodo, lui era sempre stato fedele a se stesso: glaciale e calcolatore come d'abitudine. Non mi aveva fatto alcuno sconto, continuando a trattarmi con la stessa severa autorità che mi aveva riservato sin dal principio. Era il suo modo di fare, ed io lo apprezzavo.
Sebastiano. Il solo pensare a lui mi faceva battere il cuore, eppure quella piacevole sensazione si spense non appena fui davanti al cancelletto in ferro battuto di casa mia.
Il respiro mi mancò per un secondo, mentre mi si formava un groppo alla gola, ed i miei occhi si muovevano veloci, alla ricerca di un qualsiasi particolare fuori dal normale.
Ero consapevole che non ci fosse nessuno, eppure ero terrorizzata all'idea di sbagliarmi. Se i miei genitori fossero tornati senza avvertirmi? Se li avessi trovati seduti sul divano, in silenzio, ad aspettare me? Cosa avrei fatto? Dove avrei trovato il coraggio di guardarli negli occhi?
Il mio sguardo balzò sulla finestra del soggiorno, poi su quella della cucina, per abbattersi, alla fine, su quella del primo piano. Nulla. Tutte le luci erano spente. Presi un respiro profondo e mi convinsi ad entrare.
Jasper mi venne incontro, scodinzolando energico sui miei piedi.
«Ciao piccolo» lo salutai, abbassandomi su di lui, per accarezzarlo teneramente, mentre lui si stendeva a pancia in su, voglioso di attenzioni. Sorrisi malinconicamente.
«Mi spiace Jazz, non posso farti le coccole, adesso. Sono sicura che Lidia te ne faccia già abbastanza» lo avvertii.
Quando i miei genitori avevano lasciato la città, si erano assicurati di pagare una dog sitter che provvedesse ai bisogni di Jasper almeno una volta al giorno, quasi come se fossero stati consapevoli che io non avrei avuto la forza di farlo da me. O forse non mi avevano semplicemente ritenuta all'altezza di prendermi cura di un qualsiasi essere vivente, d'altronde, come dargli torto.
Jasper era un Siberian Husky, e come ogni altro cane di questa razza, aveva una bellezza davvero folgorante. Mi fissò con i suoi occhi azzurri, tristemente, facendomi sospirare. Era dura non cedere alle sue occhiate. Cercai di farmi forza, mentre guardavo la sua scodella, già piena di croccantini, e mi rintanavo in casa. Lui mi seguì, scodinzolando lentamente, fino a quando non mi chiusi il portone alle spalle. Mi strinsi la borsa al petto, togliendo le ballerine dai piedi, per lasciarle davanti all'ingresso, prima di correre per le scale e chiudermi in camera mia. L'unica stanza nella quale avevo il coraggio di entrare da mesi.
Accesi la luce e mi guardai intorno, cercando di calmarmi. Le pareti erano sempre le stesse, colorate di un giallo tenue, sul quale spiccava il bianco della mia libreria, della scrivania e dell'armadio.
Persino il mio letto era coperto di bianco, così come le lampade, i cuscini, i quadri e i vasi delle piante.
Ricordavo di aver scelto con cura tutti quegli accessori, girovagando tra i negozi vintage di tutti il circondario. Mi ci erano voluti tutti i miei risparmi guadagnati in libreria ed un sostanzioso debito con mio padre per acquistare tutto, e adesso? Non riuscivo nemmeno ad entrare in quella camera senza avere la strisciante ed orribile sensazione di fare un torto a qualcuno. Non me la meritavo tutta quella roba.
Scossi la testa e guardai l'orologio. Non avevo tempo per farmi abbattere dai sensi di colpa.
Quando il cellulare prese a squillare, e il numero di Sebastiano cominciò a lampeggiare sullo schermo, io ero uscita dalla doccia da venti minuti, e stavo lanciando i vestiti nel mio borsone, senza alcun criterio logico. Non ero il tipo di persona alla quale interessava il vestiario. Lo ero stata, forse un tempo, ma ora credevo ci fossero cose più importanti di vestirsi bene per una serata.
Scostai la tenda e guardai fuori. Sebastiano se ne stava davanti alla sua macchina, con il telefono in una mano, la cui luce gli rischiarava timidamente il viso, e una sigaretta nell'altra.
Da quella distanza mi era impossibile vedere che espressione avesse, ma ero certa fosse accigliato. Il mio telefono continuava a squillare, e io stavo continuando a non rispondere. Questo bastava a darmi la certezza che Sebastiano si stesse innervosendo. La pazienza non era di certo una delle sue virtù. Lasciai che la tenda ricadesse al proprio posto, afferrai il borsone, il telefono e la borsa e scesi giù dalle scale, infilando le ballerine tolte poco prima, e riuscendo di casa. Quell'ora lì dentro mi era bastata per apprezzare con rinnovato entusiasmo l'aria afosa e salmastra dell'esterno. Respirai a pieni polmoni.
«Era ora. Sai, c'è una cosa chiamata orologio. Ti dice l'ora- rio, e ti avverte quando sei in ritardo. Credo tu non ne abbia uno, dato che ti aspetto qui fuori da circa dieci minuti» mi rimproverò Sebastiano, nell'attimo esatto in cui misi piede sull'asfalto. Alzai gli occhi al cielo.
«In realtà ce l'ho un orologio, ma credo si sia fermato» borbottai sincera.
Adesso che gli ero a qualche centimetro di distanza, riuscivo ad assaporarne i tratti: i capelli castani, gli occhi della stessa sfumatura, l'accenno di barba che gli sfiorava il mento...
Era cresciuto davanti ai miei occhi, passando dall'essere un esile ragazzino, ad un affascinante uomo. Ed io, che ne avevo subito gli effetti da quando non aveva nulla di più che un paio di occhi castani in un viso da bambino, adesso ero come una falena attirata perennemente dalla sua letale luce.
«Dammi quel borsone ed entra in macchina. Non ho tutta la serata.»
Feci come suggerito, senza replicare, ma prima, buttai un'occhiata al cancelletto. Jasper mi fissava, latrando tristemente.
«Pronta per la tua reintegrazione in società?» Il tono di Sebastiano era serio, anche se vagamente ironico.
Allacciai la cintura, alzando gli occhi al cielo, mentre lui metteva in moto.
«Allora è questo che state tentando di fare? Reintegrarmi? Non è che io abbia smesso di frequentarvi, mi sono solo assentata a qualche serata.»
«Giada, saranno mesi che non esci con la comitiva. Lo so che lei ti manca, ma esageri.»
Dovette accorgersi di aver detto troppo, perché quando io strinsi i denti per non sbottare, lui sospirò e continuò a parlare. «Comunque non vedono l'ora di stare con te. Matteo non fa altro che parlare di quanto gli manchi e di come non possa fare a meno della tua presenza. Insomma, se non fossi certo che sia gay, direi quasi che si è preso una cotta per te» raccontò, cambiando argomento. Annuii senza ribattere.
Il palazzo dove viveva Sebastiano, insieme al resto della famiglia, era parte della zona residenziale, e si trovava in una stradina interna, proprio dietro l'albergo più rinomato della cittadina. Ero stata lì per la prima volta a sette anni. Era il compleanno di Anita e anche se ci eravamo appena conosciute nella sua libreria, lei mi aveva invitata per educazione.
All'epoca nessuna delle due avrebbe potuto immaginare che quello sarebbe stato l'inizio di una grande amicizia. Ricordavo ancora la sensazione piacevole che mi aveva accolto quando avevo salito quelle scale, inebriata dal profumo di detersivo e di pulito, lo stesso che regnava all'interno del loro appartamento: sempre ordinato, arioso ed ospitale. Era sempre stata Anita ad occuparsene, dopo che sua madre aveva la- sciato Ruben, per risposarsi con un ricco proprietario terriero; in quei tempi io e Anita eravamo agli albori della nostra amicizia, e forse quella della "perdita" di sua madre, era stata una delle prime difficoltà che avevamo affrontato insieme, e che ci avevano rese a dir poco inseparabili. L'ultima e forse la peggiore, invece, era stata proprio la perdita di quella che consideravo la persona più importante della mia vita.
Ed era stata lei stessa a farsi carico di me, dopo l'accaduto, convincendo Ruben ad ospitarmi a casa loro per qualche giorno, con l'intenzione di non lasciarmi da sola, ma soprattutto con la consapevolezza che se non mi avesse trattenuta, io sarei scappata via, molto ma molto lontano.
Ero arrivata davanti a quella porta con una sacca in spalla, cercando dentro di me le parole e la forza di dire addio alla mia migliore amica, senza ferirla.
E invece ero rimasta lì, a qualche isolato di distanza da casa mia, forse troppo debole per tagliare il cordone ombelicale che mi legava al mio passato, o forse troppo impaurita di perdere anche ciò che il destino aveva avuto la clemenza di lasciarmi.
Alla velocità con cui Sebastiano guidava la sua auto, riuscimmo ad arrivare a casa sua in dieci minuti esatti, e mentre salivamo quelle stesse scale che albergavano nei miei ricordi, mi resi conto che non avevo sentito nemmeno una parola di quello che lui mi aveva detto durante l'intero tragitto. Lo avevo sentito parlare, certo, ma la sua voce era rimasta un ovattato suono in sottofondo, coperto dai mille pensieri che avevano invaso la mia testa.
«Giada, hai sentito quello che ho detto?» stava chiedendo, infatti, come se mi avesse letto nel pensiero. Ripresi il con- trollo delle mie piene facoltà mentali, e lo fissai, nell'esatto momento in cui girava la chiave nella toppa, e il portone si apriva, inondando di luce il pianerottolo immerso nella penombra della sera. Il mio angelo custode mi salvò dall'imbarazzo, sostituendo la mia risposta negativa con un urlo che avrebbe fatto impallidire chiunque.
«Giada!» Serrai gli occhi, pronta a subire il suo assalto, poi percepii l'abbraccio stretto di Anita e sorrisi. Uno di quei sorrisi che solo lei riusciva a tirarmi fuori.
Era la mia migliore amica, la mia fortezza e la mia felicità. Era quella che mi aveva risollevato nel periodo peggiore della mia vita, e continuava a farlo ogni giorno, senza mai farmelo pesare.
Anita e Sebastiano erano una delle uniche costanti che mi rimanevano, insieme a Ruben. Se non fosse stato per loro, forse in quel preciso istante...
Strinsi più forte la ragazza tra le mie braccia, respirando- ne il profumo di vaniglia. Doveva essere appena uscita dalla doccia, perché il suo odore era più forte ed inebriante del solito. Rimasi lì, ferma tra le sue braccia per quelli che mi sembrarono infiniti minuti.
«Ciao anche a te Giada. Sono anche io contento di veder- ti.» Ci pensò Ruben ad interrompere il momento, fissandoci dalla porta della cucina, a braccia conserte. Io scoppiai a ridere.
«Non fare il musone. Ci siamo salutati solo un'ora fa» lo presi in giro, facendogli la linguaccia. Anita, alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«Papà, a proposito, mi spiace darti questa spiacevole ed inattesa notizia, ma il frigo è vuoto e io sto morendo di fame» disse, con una smorfia.
Lui le lanciò un'occhiata esausta, avviandosi nuovamente verso la cucina, borbottando qualcosa a mezza voce. Solo allora mi resi conto che Sebastiano era sgattaiolato via, portandosi anche la mia "valigia".
«Scommettiamo che chiama Ersilia?» sussurrò Anita, tirandomi una gomitata nelle costole. Ridacchiai.
«Andata» risposi, stringendole la mano.
Sentimmo il rumore del frigorifero che si apriva e si richiudeva, poi un respiro pesante ed un tonfo, chiaro segnale che Ruben si era appena seduto su una delle sedie della sala da pranzo. Non ci volle molto prima che la sua voce riecheggiasse nel corridoio.
«Cosa volete? Ordino qualcosa dal Tortellino. Per voi va bene?» gridò per farsi sentire al di là della parete. Io e Anita ci scambiammo uno sguardo divertito, ridendo sotto i baffi, e battendoci un cinque furtivo.
«Vuoi ordinare qualcosa lì perché siamo senza viveri, o perché vuoi vedere Ersilia?» lo canzonò sua figlia, raggiungendolo. Ersilia era la proprietaria del ristorante sotto il con- dominio, e come Ruben, era separata e alla ricerca di qualcuno che la potesse rendere di nuovo felice. Era da settimane ormai che io e Anita tentavamo di farli avvicinare, ma sembrava che il nostro aiuto fosse del tutto superfluo, dato che i due sembravano intendersela alla perfezione anche senza i nostri sproni.
«Piantatela, voi due. Mi fate sentire come se fossi un ragazzino alle prime armi. Il frigorifero è vuoto, e quello di Ersilia è l'unico locale aperto a quest'ora» fece stizzito.
«Adesso che ci penso, voi non dovevate uscire?» continuò, e i suoi occhi si illuminarono, come se avesse appena avuto l'intuizione del secolo.
«Giusto, me ne ero completamente dimenticata» confessò Anita.
«Verrà anche Andrea?» chiesi, fingendomi indifferente.
«Sì, ha detto qualcosa come fammi il favore di non metterti addosso niente di troppo vistoso, e poi se ne è andato sbattendo la porta» raccontò arricciando il naso, indicando la maglietta che indossava. Aveva una scritta in giapponese, e rappresentava una delle tante scene dei fumetti che tanto le piacevano. Non ne capivo il senso, ma ero abituata a quel tipo di cose con lei. Ormai stavo diventando anche io brava ad interpretare i kanji, o a capire quale anime stesse guardando, soltanto ascoltandone l'audio.
«Questa ti sembra vistosa?» chiese retoricamente.
Sorrisi. Lei e Andrea insieme erano uno spasso. Continuavano a girarsi intorno come due predatori, senza mai avvicinarsi troppo. Sospettavo fossero talmente stupidi da non voler ammettere quanto fossero attratti l'uno dall'altra e viceversa.
«Oh beh, se non altro è originale» dissi, ironica. Anita scoppiò a ridere, avviandosi in camera. Stetti per fare lo stesso, ma Ruben mi fermò, chiamandomi.
«Tua madre mi ha mandato un messaggio. Di nuovo.» Rabbrividii.
«Cosa voleva questa volta?» chiesi, presa dal panico.
«Mi ha solo chiesto se stessi bene» spiegò, lui. Cercai di rimanere calma. Era chiaro che mia madre non avesse la minima voglia di chiamarmi, e lo capivo. Avrei reagito allo stesso modo se sua figlia fosse stata come me. Avrei tagliato tutti i ponti, senza rimpiangerlo nemmeno per un secondo. Eppure si ostinava a mandare messaggi a Ruben, sapendo che lui era con me.
Perché continuava a farlo? Cercava di mantenere le apparenze, per poi evitare me come la peste? Era il suo modo per farmi sentire in colpa?
«Credo sia davvero preoccupata per te» sussurrò cauta- mente Ruben. Non si era mai spinto a farmi discorsi sulla mia famiglia da quando ero lì, o sul mio rapporto con i miei genitori, eppure adesso lo stava facendo.
«Grazie per avermi riportato il suo messaggio» dissi Freddamente, prima di voltargli le spalle.
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