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5. Fango dalle tue vene

Esistono fiori più preziosi degli altri perché non possono essere raccolti, vanno solo osservati da lontano. Andrew era uno di quei fiori, apparteneva a qualcun altro e per tale motivo non mi era concesso averlo tutto per me, piantarlo nel mio giardino ancora troppo spoglio. Ma io ancora non lo sapevo. Dopo la notte trascorsa in spiaggia ci promettemmo che non ci saremmo persi di vista, continuammo a vederci per tutta l'estate, quasi tutte le sere. Non dissi nulla di tutto ciò ai miei genitori, sapevo che difficilmente avrebbero accettato che la figlia uscisse con ragazzi più grandi, per di più se tatuati e fumatori abituali. Dunque ogni sera avrei dovuto inventare una scusa diversa per chiudermi in stanza e  calarmi dalla finestra, per poi rientrare verso le quattro o le cinque del mattino. Andrew divenne la mia estate proibita, la mia estate segreta, e ciò contribuiva a rendere il mio interesse verso di lui ancora più intrigante. Eppure ancora non riuscivo a capire cosa provassi esattamente per lui, ero alle prese con sentimenti sconosciuti e se una parte di me voleva a tutti i costi continuare quell' esplorazione selvaggia verso l'ignoto continente Andrew, l'altra parte continuava a ripetere di dover rinunciare perchè non ci sarebbe stato alcun futuro. Osservai a lungo sia Andrew che Evan, iniziavo a studiare le persone, a esaminarle a fondo per poterne capire qualcosa. Capii subito che erano due persone completamente diverse: Andrew era più riflessivo, più riservato, enigmatico e misterioso, più vulnerabile dietro la maschera che era solito indossare. Evan, invece, era l'esatto contrario: era più impulsivo, più ostinato, dinamico, eccentrico e provocatorio. Andrew voleva sapere tutto di me, ormai mi conosceva meglio di chiunque altro, sapeva di me molto più di quanto potessi saperne io, aveva imparato a leggere i miei sguardi e a capire i miei silenzi. Sapeva della mia paura per gli spazi stretti e bui, sapeva della mia insolita abitudine, ovvero addormentarmi con il suono dell' aspirapolvere in sottofondo, avevo scaricato appositamente un'applicazione sul mio cellulare che ne simulava il suono. Sapeva della mia passione per i libri, per la pizza e per il gelato a fragola. Lui, invece, era ancora un libro da decifrare, uno di quei libri dalla copertina elegante e rifinita, ma complessi e intricati al suo interno. Andrew, nel corso di tutti questi anni, per me è stato tante cose, ha assunto sembianze sempre diverse. Ma più di qualsiasi altra cosa, Andrew per me è stato come una città. Una città non la conosci mai abbastanza e quando sei convinto di sapere ogni segreto che si nasconde dietro gli angoli crepati o la storia della vita di ogni mattone che formano quel muro, tu non conosci altro che la città che era: ne osservi la cartolina di non molto tempo fa. Andrew è come la città: un labirinto del quale non potresti mai trovare via d'uscita perché le sue strade ed i suoi vicoli ciechi cambiano quotidianamente, e proprio quando credi di conoscerlo, lui comincia a muovere tutti i suoi pezzi, li gira e li rigira, li combina e li divide, si distrugge e si ricostruisce e tu insieme a lui. Lui cambia e finisce col cambiare anche te, lui si distrugge e finisce col distruggere anche te, lui si ricostruisce e finisce col ricostruire anche te, sasso dopo sasso, mattone su mattone, vernice su vernice. E così di una città non ami il suo presente, ma tutte le sue forme passate e le sue molteplici sfaccettature. E così di un uomo non capisci il suo presente se non riconosci tutti i volti che ha indossato, tutte le vite che ha vissuto, tutti i labirinti che ha distrutto. Ed io di Andrew non conoscevo ancora il passato. Ero ancora bloccata in quel labirinto che aveva dimenticato di distruggere.

Non impiegai molto a capire che Andrew cominciava a piacermi, e non poco. Lo capii la sera del quindici agosto, al falò sulla spiaggia. Andrew ed Evan mi presentarono ad un gruppo di ragazzi, probabilmente gli unici di Vanporter oltre noi: Samuel, Ingrid, Joffrey e Felicia. Quella sera io portai delle salsicce per tutti, Andrew dei panini, Samuel portò delle lattine di birra e una bottiglia di vino bianco, Evan portò più sigarette del solito perché Ingrid voleva provare a fumare, Joffrey portò la brace ed Ingrid un sacco di carbone. Andrew passò a prendermi puntuale, come suo solito. Indossava un paio di bermuda verde militare, una t-shirt nera ed un paio di bikini, io indossavo un vestitino rosa pallido e delle converse basse. Volevo essere bella quella sera, sapevo che Ingrid e Felicia avrebbero passato ore e ore a truccarsi e lo feci anch io. Niente scuse quella sera,« mamma, papà, vado al falò sulla spiaggia.», dissi, prima di uscire di casa, lasciando entrambi un po' po stupefatti, sicuramente senza parole. Stesi sul viso della crema colorata, rubai un rossetto color granata dal borsello di mia madre e mi truccai le labbra con molta precisione, prestando attenzione a seguirne le linee. Poi misi un po' di matita nera agli occhi e un velo di mascara. Mi davo almeno due anni in più e ne ero felice, senza sapere il perché avevo tanta voglia di crescere, e in fretta. Chissà cosa mi aspettavo. Andrew mi salutò con un bacio sulla guancia, io ricambiai cercando di non macchiarlo col rossetto.

«Sai, non hai bisogno di tutto quel trucco...» Cominciò a dire mentre ci avviavamo alla spiaggia dove ci aspettavano gli altri.

«Guarda che non ne ho messo tanto, cosa dirai di Ingrid e Felicia allora?» Chiesi, mostrandogli il viso effettivamente poco truccato. Col passare del tempo avevo iniziato a familiarizzare con l'idea di Andrew al mio fianco, a poco a poco quella timidezza e vergogna iniziale cedettero il passo alla complicità, eppure continuavo a sentirmi inadeguata e fuori luogo quando ero con lui, non mi sentivo all'altezza. Sapevo che quello era un chiaro segno del fatto che i miei interessi nei suoi confronti andassero oltre una semplice amicizia, che mi stavo affezionando più del dovuto, ed ogni giorno mi promettevo di non andare oltre, ma ogni giorno andavo oltre, ogni giorno era come il primo giorno. Mi emozionava anche solamente l'idea di doverlo incontrare, di dovergli camminare vicino, di dover condividere lo stesso tratto di strada, lo stesso pezzo di sabbia. I miei occhi, le mie orecchie, le mie labbra erano per lui e per lui soltanto. Non vedevo altro che lui, non ascoltavo altro che lui, non desideravo altro che lui, ogni giorno di più. Ma cosa mi aspettavo esattamente? Da parte sua non arrivava mai ciò che io aspettassi o desiderassi, l'attesa diventava infinita e intanto il tempo continuava a scorrere, l'estate stava giungendo al termine e alla fine mi sarei ritrovata a stringere tra le mani solo il suo ricordo, null'altro.

«Tu non sei come loro. E non hai bisogno di tutto quel trucco.» Disse serio.

«Tu non sei come loro...» ripetei imitando la sua voce «...lo dicono tutti.»  Terminai.

«Io non sono come tutti gli altri.»

«Anche questo lo dicono tutti.» Dissi, guardandolo con aria di sfida. «Non puoi fare di meglio?»

«Cosa ne sai?»

«Cosa ne so di cosa?»

«Di cosa dicono tutti.»

«Tutti sanno cosa dicono tutti, perché lo dicono tutti, appunto!»

«Cosa ne sai?» Tornó a chiedermi, questa volta più serio. Mi si fermò davanti, mi fissava. Io cedetti, non riuscivo a mentirgli quando mi stava a due centimetri dal viso.

«Lo leggo nei libri.» Confessai.

«Beh nei libri ci son scritte tante di quelle stronzate!» Scherzó lui. Sembrò sollevato. Riprese a camminare. Non gli risposi, mi limitai a guardarlo per qualche secondo per poi continuare a camminare al suo fianco. Arrivammo alla spiaggia poco dopo, erano tutti lì, la brace già scintillava. Le lattine di birra erano in un recipiente pieno di ghiaccio, la bottiglia di vino, invece, era completamente vuota.

«Lei è già andata.» Disse Joffrey indicando Ingrid. Felicia le teneva i capelli mentre rimetteva anche l'anima.

«L'ha fatta fuori lei?» Chiese Andrew osservando la bottiglia vuota.

«In un solo colpo» Commentò Evan, «io ho fame, mettiamo le salsicce sul fuoco?»

«Ci penso io» dissi, cercando di evitare l'orribile scena che mi si svolgeva dinanzi.

Presi a cuocere le salsicce e ad imbottire i panini mentre gli altri corsero alla ricerca di rametti di legno e sassolini per il nostro falò. Andrew invece restò con Ingrid e si divertiva ad ascoltare tutte le sue frasi senza senso, ad alcune anche io non resistevo e scoppiavo a ridere. Sembrava tutto perfetto, una comitiva di amici che si divertiva al falò di fine estate. Un morso al panino, un sorso di birra, una battuta e si ricominciava. Fin quando non sentii la scocca di un bacio. Allora non sorrisi più, non risi più, mi fermai completamente. Non volevo voltarmi, non volevo guardare, non volevo sapere, ma lo feci. Mi voltai per pochi, pochissimi secondi, quel poco che serviva per vedere il corpo di Ingrid accovacciato su quello di Andrew, le loro labbra vicine. Mi rigirai, lentamente, mentre quella scena si ripeteva davanti ai miei occhi innumerevoli volte. " Non sono come tutti gli altri ", la sua voce mi risuonava nella testa come un'eco interminabile. Sapevo che i libri non raccontassero stronzate, e sapevo che delle persone non ci si può fidare. Puntai lo sguardo sulle salsicce che arrostivano sulla brace, vedevo il fuoco scoppiettare in scintille minuscole e sdoppiarsi. La testa mi girava, volevo vomitare anche io, volevo piangere, volevo tornare a casa, mettermi a letto e non alzarmi più. Non volevo più vederlo, odiavo Ingrid e più di tutti odiavo lui. A cosa servono le belle parole? A cosa servono le promesse se non le si possono mantenere? A cosa serve prendersi gioco degli altri? Spogliarli, accarezzargli la pelle e poi deriderli? Io per lui ero un libro aperto. Andrew sapeva ormai ogni cosa di me. È stato un mio errore, fidarmi troppo in fretta, ancor prima che me lo chiedesse. Non mi sarei più fidata di nessuno, questo me lo promisi, perché la fiducia, l'amore, ti rendono debole. Ed io non volevo esserlo, non volevo essere spezzata come un vaso di terracotta, perché non ci sarebbe stato nessuno a raccoglierne i pezzi. Sarei rimasta così per sempre. D'altra parte sapevo che ormai non c'era più scampo, Andrew mi piaceva e non potevo nascondermi questa verità: non avrei reagito così altrimenti. Però, magari, allontanandomi da lui, non frequentarlo più, non vederlo più mi avrebbe aiutata a dimenticarlo. Era un fuoco appena nato, poteva spegnersi in fretta, bastava un po' d'acqua. E poi? La cenere sarebbe rimasta, quella sì. Ma alla cenere ci pensava il vento, non possiamo fare tutto noi.

Rimasi stordita per un po', come se una campana avesse suonato nella mia testa per ore ed ore. Lo stomaco mi si strinse fino a diventare un fagiolo e di colpo non avevo più fame: di colpo non ne volevo sapere più niente del falò, del quindici agosto, del mare, dell'estate, degli amici, di Andrew. Non ne volevo sapere più niente di nulla, avevo solo voglia di tornare a casa e sentivo che se non lo avessi fatto in fretta, sarei esplosa come una mina. Un solo passo sbagliato e sei morto. Pensai che la vita di ogni uomo è solo un gioco di equilibrio, ciò che ci separa dalla morte è solamente un filo, un filo è ciò che ci unisce ed è ciò che ci divide, ed è così sottile e semplice da spezzare. Delle volte siamo così felici da sentirci tristi. Delle volte siamo così vivi da sentirci morti. Delle volte amiamo così tanto che crediamo di odiare. Delle volte la realtà ci appare così limpida che ci fa impazzire. E quindi non puoi barcollare su questo filo, o sei a sinistra o sei a destra, e se il filo si spezza basta fare un nodo. Ed io, il primo nodo, lo feci quella sera.

Delle voci mi riportarono alla realtà. Evan mi scuoteva per le spalle e mi chiedeva se stessi bene.

«Sto bene» gli dissi, «il mare mi ha incantata, è magnifico questa sera.» Mentii.

«Ah!» Sospirò. «Meno male! Mi hai spaventato.» Poi mi guardò meglio con quei suoi occhi grandi e verdi, prese il viso tra le mani e lo esaminò a lungo. «Sicura di stare bene? Sei piuttosto pallida..»

«Sto bene ho detto.» Lo dissi forse a voce troppo alta perché tutti si voltarono verso me. Ci fu un silenzio totale per qualche secondo, poi le risate ripresero regolarmente. Erano tutti attorno al fuoco a bere la birra in lattina, poi Andrew mi si avvicinò.

«Tutto bene qui?» Chiese, guardando prima me e poi Evan. Il suo alito puzzava di alcool.

«Non lo so, la piccola Jele è troppo pallida, sembra che abbia visto un mostro o qualcosa del genere.» Evan e Andrew si scambiarono un'occhiata, dopodiché Evan si allontanò.

«Stai bene?» Chiese lui, puntandomi gli occhi nei miei. Potevo vederci la luna, grande ed argentata. E potevo vederci il mare ricoperto di stelle. Abbassai lo sguardo, non riuscivo a mentirgli guardandolo negli occhi. Non risposi. Allora anche Andrew mi prese il viso tra le mani, ed io quel tocco davvero non riuscii a reggerlo. Tutto d'un tratto mi faceva schifo, quelle mani non le volevo più, non volevo più sentirle su di me. Urlai per la rabbia e cominciai a lanciargli pugni sul petto, lui cercava di difendersi incrociando le braccia dinanzi a sé, parando qualche pugno di tanto in tanto, fin quando non arrivò Evan di corsa, mi prese per i polsi e mi allontanò da Andrew. Nessuno capì cosa fosse successo, neanche io. Bollivo ancora dalla rabbia quando Evan mi strinse tra le sue braccia, poggiò il mio viso sul suo petto e cominciò ad accarezzarmi i capelli. Sentivo il suo respiro pesante, il battito del cuore accelerato. Allora capii che questa volta avevo esagerato. In lontananza sentivo delle voci, ma non riuscivo a riconoscerle. «Cos'è successo?» chiedevano, «boh! È pazza!» qualcuno rispose.

«Vuoi tornare a casa?» Mi chiese Evan dopo essersi staccato piano da me. Feci cenno di sì con la testa. Mi voltai a guardare cosa avessi lasciato dietro di me. Andrew si era acceso una sigaretta, se ne stava in disparte, fumava nervoso mentre impugnava la lattina di birra. Ingrid gli si avvicinò. Gli chiese qualcosa, anche lui rispose con un cenno del capo.

«Vuoi che ti accompagni?» Chiese Evan quasi sottovoce, come se non volesse disturbare. Andrew si voltò a guardarmi, aveva gli occhi piccoli e lo sguardo cupo, cacciò una nuvola di fumo dalla bocca.

«No, vado da sola.» Dissi. Salutai Evan con un bacio sulla guancia e me ne andai da quel posto, da Andrew. Non volevo vederlo più.

Percorsi piano la strada che mi riportava fino a casa, esitavo. Di tanto in tanto mi voltavo a guardare se ci fosse qualcuno dietro di me o se ci fosse qualcuno che urlasse il mio nome in lontananza. Quella scena l'avevo letta e riletta più volte nei libri: lei che se ne andava, lui che la inseguiva. Poi si ritrovavano. Ma per me quella sera non c'era nessuno, nessuno a cui piacesse perdere il fiato in una corsa contro i sentimenti ed i rimpianti. Semplicemente lui mi aveva lasciata andare, e ancora mi chiedevo cosa mi aspettassi da Andrew, cosa volessi da lui. Una cosa era certa. Lui da me non voleva assolutamente niente, probabilmente non avevo niente da offrirgli e lui in me non aveva trovato nulla da prendere, nulla da custodire. Prima però mi aveva spogliata, o meglio io mi ero spogliata per lui. Mi fidavo di Andrew e del suo sguardo inquisitore, per lui ero come un caso da risolvere ma gli mancavano i pezzi. E chi, se non io stessa, poteva offrirgli quel che cercava per completare il suo puzzle? Così gli raccontai tutto di me, mi ero spogliata di tutto ciò che indossavo come mai avessi fatto in vita mia. La mia anima nuda non gli sarà piaciuta. Mia nonna me lo ripeteva sempre: i segreti sono tuoi e tuoi soltanto, e se saprai come usarli, allora saranno la tua arma migliore. Ed io quell'arma decisi di gettarla. Arrivai a casa verso le undici e mezza. Dormivano già tutti e cercai di fare quanto meno rumore possibile per non svegliare mia madre. Quella sera sapevo di non riuscire ad affrontare anche lei e le sue mille domande su come fosse andata la serata e cosa avessi fatto, mentire non mi riusciva particolarmente bene e avrebbe subito scoperto che in sua figlia c'era qualcosa che non andava. Dunque ci impiegai una ventina di secondi per aprire la porta ed altri venti per richiuderla senza provocare alcun rumore per poi sgattaiolare in punta di piedi nella mia stanza. Tolsi i vestiti e mi coricai sul letto: fissai il soffitto, poi mi girai su di un fianco, poi sull'altro, poi tornai a fissare il soffitto, infine piansi in silenzio. Non ricordo l'ultima volta che piansi ma ero sicura che se lo avessi fatto prima, era per una Barbie che Christen, la mia migliore amica ai tempi dell'asilo, aveva e che volevo anche io. Quella sera piansi davvero e assaggiai il sapore del mio dolore, era salato come l'acqua del mare, eppure era dolce. Quando quella scena si ripeteva dinanzi i miei occhi, quando vedevo il corpo di Ingrid accovacciato su quello di Andrew, le sue gambe lunghe e nude che gli stringevano i fianchi ed i suoi capelli neri e fini che si piegavano sulle sue spalle, cominciavo a stringere le lenzuola per la rabbia. Per la gelosia. Ero gelosa, sì, poco a poco cominciavo a conoscere e riconoscere tutte le emozioni e le sensazioni ed ora potevo dirlo: ero gelosa di Andrew. E poi le sua braccia forti che si piegavano sui gomiti, le mani che affondavano nella sabbia umida ed il corpo intrappolato in quella presa. Avrei tanto voluto sentire il sapore delle sue labbra. Cancellai subito quel pensiero dalla mia testa quando il suono sordo del loro bacio cominciò a rimbombare nelle mie orecchie. Piansi ancora a lungo. Mi addormentai con la guancia premuta sul cuscino bagnato del mio dolore.

Il mattino seguente fu mia madre a svegliarmi, aveva trovato la porta aperta e decise che quella era l'occasione giusta per portarmi la colazione a letto, dopo tanto tempo. Si sedette sul bordo del mio letto e sussurrò il mio nome più volte mentre mi carezzava i capelli così dolcemente come solo una madre saprebbe fare.

«Jelena...»

Aprii gli occhi, il viso di mia madre venne sfigurato da un forte raggio di sole che mi impediva di riconoscerne i lineamenti.

«Mamma?»

«Amore, guarda la tua mamma cosa ti ha preparato.» Indicò il vassoio di ceramica a fantasia floreale che aveva accuratamente adagiato sul comò accanto il mio letto. Una fetta di torta di mele, una fetta di crostata alla crema, un croissant vuoto, un bicchiere di succo darancia e una tazza di caffellatte accompagnata da quattro biscotti al cacao, la tipica colazione dei campioni offerta ad un chiaro esemplare di fallimento umano.

«Festeggiamo qualcosa?» Chiesi, un po' per prenderla in giro, un po' perché non me l'aspettavo. Lei sorrise, nonostante quel fastidiosissimo raggio di sole che continuava a coprirle il viso riuscii comunque a percepire il suo sorriso, perché il sorriso di una madre è quanto di più potente e magnifico possa esistere nel mondo. Poi d'un tratto cambiò espressione, la spensieratezza cedette il posto alla preoccupazione.

«Tesoro, ti senti bene?» Prese il mio viso tra le mani, lo voltò prima a destra, poi a sinistra. «Hai una brutta cera. Forse hai la febbre, sai. Aspetta, vado a prendere il termometro.» Scattò subito dal letto, ma io l'afferrai per il braccio.

«Mamma...» Con fatica riuscii a piegarmi sulle braccia e assunsi una posizione semiseduta. Mi mancavano le forze, l' accaduto della sera precedente aveva divorato tutta la mia energia, mi sentivo come un chewing gum tenuto in bocca per ore, masticato fino ad assorbirne tutto il sapore e poi sputato sull'asfalto. Limmagine di quel dannato e sporco bacio mi si ripeté dinanzi agli occhi ancora una volta ad intervalli irregolari. «Mamma, non è nulla. Sono solo molto stanca. Davvero stanca.» Poi scoppiai a piangere, piansi forte. Troppo forte per convincermi che stessi bene, che ero solo stanca. Mia madre tornò a sedersi sul letto, mi strinse forte tra le sua braccia, quelle braccia sottili che mi hanno sempre protetta da tutto. Mi chiesi per quale motivo avessi scelto di uscire allo scoperto, rinunciare a quella protezione assoluta, a quell'amore incondizionato. Ai primi passi compiuti fuori quell' amorevole guscio caddi, e mi feci miserabilmente male. Mi sentii in colpa per averle nascosto tutto dall'inizio, per avere avuto dei segreti. E adesso che avevo un disperato bisogno di parlarne con qualcuno, non potevo fare altro che stringere il mio dolore e aspettare che perdesse di potenza sotto la stretta morsa delle mie braccia. 

«Jelena, tesoro mio. Va tutto bene...» Con una mano mi carezzava la schiena, con l'altra prese un biscotto dal vassoio e lo avvicinò alle mie labbra, «tieni, mangialo. Ti sentirai meglio. Hai solo bisogno di ricaricarti, sei una pila scarica.» Io storsi il naso e la bocca, non avevo voglia di mangiare, non avevo fame.

«Non ne ho voglia, mamma. Magari più tardi. Adesso ho solo bisogno di dormire.»

«Va bene, va bene. Adesso chiamo Adam, gli dico che non andrai al Pub questa sera.» Si staccò piano da me, io mi asciugai gli occhi ancora bagnati. Mi diede un bacio sulla fronte, poi si alzò dal letto. «Mi raccomando, Jele, riposati e non fare altro.» Prese il mio cellulare dalla mensola sopra al letto e lo posizionò accanto al vassoio di ceramica. «Qui c'è il tuo cellulare, per qualsiasi cosa chiamami. Io e tuo padre andiamo in spiaggia, vogliamo goderci queste ultime settimane di mare.»

Acconsentii con la testa. Mia madre mi rivolse un'ultima occhiata prima di lasciare la stanza e chiudere la porta dietro di lei. Osservai di nuovo quel raggio di sole, creò una striscia luminosa che partiva dal mio letto e si prolungava fino alla parete destra della mia stanza, ma non raggiungeva me. Sono proprio questi i giorni più tristi, sono quelli in cui il sole, splendendo della sua luce più forte, allontana le nuvole e le distrugge,  illumina i tetti, i prati fioriti, le piume degli uccelli che cantano sugli alberi. Illumina i visi contenti, penetra i vetri e irradia le stanze. Eppure non riesce ad illuminare te, non riesce a penetrare la tua pelle, a riscaldare il cuore, a renderlo meno duro con te stessa. Non asciuga la pozzanghera che la pioggia ha lasciato battendo su di esso. Cola fango dalle tue vene, fango che non si essicca al sole, fango che imbratta le tue ali e ti vieta di volare.

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