15. Chloe
Il ritorno ad Hankens fece più male del previsto: odiavo quel posto, odiavo essere lontana da Andrew, odiavo vivere a trecento chilometri da lui. Quando gli chiesi di Ingrid e di cosa ci fosse esattamente tra loro, mi assicurò dicendomi che quel bacio era stato una bravata, una cosa da ubriachi, mi ripeté più volte che non era assolutamente interessato a lei e con le labbra a pochi centimetri dalle mie mi chiese di fidarmi di lui. Poco prima di salutarci, gli chiesi come avesse fatto a trovarmi, a scoprire dove fossi e con chi fossi.
«Evan mi ha chiesto di venire, mi ha detto che ci saresti stata anche tu. Gli avevo detto di no, che non sarei andato con loro, ma non gli ho detto che, in realtà, avevo solo paura di incontrarti di nuovo. Poi ho pensato che questa sarebbe stata l'ultima sera qui a Vanporter, dunque avevo un'unica possibilità. Incontrarti o lasciarti andare, per sempre. Ma qualcosa mi diceva di doverti incontrare, ne avevo bisogno.» Quella sera non ci dicemmo addio, piuttosto un aspettami, ci rivedremo presto. Ma quel presto sembrava non arrivare mai, i miei giorni si ridussero in un'attesa straziante. Quel desiderio logorante cominciava a cambiarmi, alimentava la rabbia, il rancore, la noia, amplificava tutte quelle emozioni e quei sentimenti che prima di Andrew faticavo ad esprimere. Spesso perdevo il controllo, mi lasciavo sopraffare. Quanto sia difficile vivere lontano dal proprio spiraglio di luce, solo Dio lo sa. C'erano giorni in cui non desideravo altro che sprofondare in un suo abbraccio e lasciarmi cullare in quelle braccia forti; c'erano giorni in cui non desideravo altro che toccare quelle labbra morbide, baciarle piano e sentirne il sapore posarsi sulla mia lingua. Era tutto ciò che volevo, e tutto ciò che volevo era dall'altra parte del Mondo. E allora cosa potevo fare se non abbracciare il mio stesso dolore? D'altronde, quando ho scelto di aspettarlo, quando ho promesso di aspettarlo, sapevo bene a cosa stessi andando in contro. Avevo immaginato come sarebbe andata a finire, ma di certo non mi aspettavo questa fine.
«Andiamo a fumare?» Mi chiese Chloe, verso la metà della giornata scolastica, quando tutto cominciava a farsi pesante e gli studenti non dedicavano più di dieci minuti della loro attenzione alla lezione. Chloe era la mia nuova vicina di banco, la new-entry di quell'anno, trasferitasi in città pochi giorni prima dell'inizio della high school.
«No, Chloe. Ieri ti ho detto che non avrei più fumato nel bagno, ci stavano per fare il culo.» Sussurrai.
«Ma non siamo le uniche a fumare lì, se ieri è capitato a noi non è detto che oggi debba capitarci di nuovo! Io credo nella ruota che gira.» Mi fece un occhiolino accompagnato da un ampio sorriso, poi agitò l'accendino davanti i miei occhi. Sbuffai, anche quella volta era riuscita a convincermi. Senza proferir parola presi il borsello in cui nascondevo il pacchetto delle Marlboro. «Andiamo.» Dissi infine, mentre ancora fissavo il mio pacchetto.
«Professore, possiamo andare in bagno?» Chloe interruppe la lezione e tutta la classe si voltò a fissarla. Il professore di scienze ci fissò per un po', palesemente infastidito.
«Mi spiace, signorina Sanders, ma il regolamento parla chiaro: in due non si può uscire. Ora, ritornando al...» Chloe lo interruppe nuovamente, era terribilmente sfacciata e l'ammiravo proprio per quel suo modo di fare, quel suo modo ti ottenere quel che le è dovuto.
«Professore, il regolamento prevede anche che i bagni siano sempre funzionanti, eppure i lucchetti alle porte non ci sono e spesso ci siamo ritrovate i ragazzi nei bagni. Mi serve qualcuno che mi tenga la porta... Non vorrei rischiare, sa'... una gravidanza indesiderata.»
Il professore rimase in silenzio, con aria stizzita, la mascella tirata, mentre qua e là scappava qualche risata, qualche mormorio.
«Andate.» Disse alla fine, «ma fate presto.»
Raggiungemmo la porta dell'aula con la testa chinata mentre quaranta occhi posavano su di noi. Quando, finalmente, fummo fuori l'aula, lanciai sospirò: ancora non riuscivo a sopportare gli occhi di tutti quei ragazzi di cui conoscevo sì e no i nomi. Non che io fossi asociale, ma nessuno era interessato a parlare con me, a fare i compiti insieme. Ma Chloe non era come loro, no. Chloe era diversa.
La bidella gironzolava all'esterno del bagno, in quell'atrio freddo e spoglio, con lo sguardo vigile e le braccia incrociate sul petto.
«Non me la sento.» Dissi. «E' proprio qui fuori, non possiamo rischiare.» Afferrai Chloe per un braccio, costringendola a voltarsi in direzione della donna alta e robusta.
«E' stata qui fuori tante volte, Jele. Lo sai che non può entrare.» Chloe si accese una sigaretta, la teneva tra le sue dita lunghe, chiare, aveva le unghie pittate di nero, metà testa rasata, mentre dall'altra metà cadevano, ondeggianti, i suoi capelli rosso fuoco. Inspirò a lungo, riempì i polmoni. «Cosa, non fumi?» Disse tra le nuvole di fumo.
«No, non mi va.» Mi accovacciai sulle ginocchia, il mio pensiero andò dritto ad Andrew, alla sera in cui mi insegnò a fumare, la stessa sera in cui mi proibì di iniziare. Non gli dissi che avevo cominciato anch'io, si sarebbe sentito mortificato, lo avrei deluso, ed io non volevo deluderlo.
«Cagasotto.» Chloe mi sorrise. «Come stai?» Chiese dopo un po'. Quella domanda mi spaventava, era un po' come fare i conti con la propria coscienza, con la propria vita.
«Se ti dicessi di star bene, mentirei. Ma ormai ci ho fatto l'abitudine.» Mormorai, fissando il muro piastrellato.
«Sì, dicono tutti così. Eppure non ci si abitua mai abbastanza. Fa sempre un po' male, giusto un po'.» Aspirò un'altra boccata di fumo. Chloe aveva ragione, per quanto tempo possa passare, non ci si abitua mai abbastanza alle ingiustizie della vita, fa sempre un po' male.
«Tu come ti senti?» Chiesi.
«Inadeguata...» Si accovacciò al mio fianco, poggiò la schiena al muro e distese le gambe sul pavimento. «Lo vedi anche tu, questo posto mi rifiuta.»
«Essere diversi non significa essere sbagliati o inadeguati, Chloe. E' solo che molte persone non lo capiscono...» Un suono acuto cominciò a fischiarmi nelle orecchie, era l'allarme antincendio.
«Cazzo, ma da quando l'hanno messo questo coso?» Chloe più che terrorizzata era incredula, stringeva la sigaretta ancora intera tra le dita che adesso tremavano.
«Spegni quella cosa, muoviti, spegnila!» Urlai col cuore in gola, ma era troppo tardi: la bidella che gironzolava fuori il bagno aveva già varcato la soglia e ci aveva colte in flagrante. La ruota che gira, ma che grande stronzata.
Venimmo portate in presidenza ad insaputa del professore e della classe. Eravamo nei guai, ma in guai seri.
«Due ragazze del terzo anno che fumano nei bagni dell'istituto, chi l'avrebbe mai detto? Voi Junior dovreste essere più maturi rispetto gli studenti del primo o del secondo anno, dovreste fungere da esempio. Ma vi ho preso il pieno, tac!» La preside colpì la fronte di Chloe con le dita. «Non avete mai fatto caso al vietato fumare posto all'entrata dell'edificio? Il regolamento d'istituto vi viene letto ogni anno dai professori, avreste dovuto saperlo a memoria, perchè infrangere le regole? Siete anche uscite in due, cosa severamente vietata, il che rende il reato ancora più grave.» La donna si gettò sulla sua poltrona dietro la scrivania ed accavallò le gambe lunghe e magre. Incrociò le mani sotto al mento e ci fissò con i quegli occhi piccoli e circondati da piccole rughe.
«Nei bagni dell'edificio A mancano i lucchetti alle porte, non è un caso che ci troviamo i ragazzi nel bagno, signora preside, e penso che debba essere un suo compito risolvere il problema, ma chissà perchè, in tre mesi che sono qui, non è mai cambiato nulla. Nessuno ha mai rispettato le regole, neppure lei.» Chloe indicò il posacenere di cristallo adagiato sulla grossa scrivania di metallo. Io trattenni il respiro, ero senza parole. Sapevo che Chloe stava esagerando e che ciò non avrebbe fatto altro che aggravare la situazione, eppure aveva fottutamente ragione. Fu per questo che la lasciai fare, perché tutti dobbiamo avere il diritto di raccontare la nostra verità. «Avremmo dovuto avere il suo esempio e invece... ops, cosa sono queste? Sigarette?» Chloe alzò il posacenere per sottoporlo allo sguardo della preside, e dentro c'erano tre mozziconi di sigarette. La preside si alzò di scatto, aveva gli occhi spalancati e rossi per la rabbia.
«Sospese, siete sospese! SOSPESE! Non avete il diritto di rivolgervi in questo modo, siete delle sciocche, delle incoscienti!» Urlò la preside furiosa, mente gettava i suoi documenti per terra e si muoveva agitata per la stanza. Fu in quel momento che capii quanto grave fosse diventata la situazione: una sospensione poteva anche condurre alla bocciatura, e come lo avrei detto ai miei genitori? Andai in panico.
«No, aspettate! Io non c'entro niente in questa situazione! Non ho fatto niente!» Dissi singhiozzando. Proprio in quel momento entrò in presidenza altro personale dell'istituto. La preside continuava a gettare violentemente fogli e libri dagli scaffali. «Come osate... mocciose che non siete altro!» Continuava a sbraitare, al che Chloe scoppiò in una risata isterica.
«Portatele fuori, FUORI!»
Il vicepreside ci afferrerò per le spalle e mentre ancora gridavo la mia innocenza tra i singhiozzi, venimmo portate nell'atrio della Hankens' high school. Era un uomo minuto, calvo, quel giorno indossava un completo grigio rigato ed una camicia bianca. Ci chiese dell'accaduto, annotando quanto detto su un registro. Poi si allontanò, lasciandoci sole nel bel mezzo dell'Inferno.
«Tutto questo... è stata colpa tua!» Urlai, puntando il dito verso Chloe, col viso rigato dalle lacrime e gli occhi gonfi. Lei non rispose, camminava avanti e indietro per l'atrio aspettando che il vicepreside ritornasse per riferire i provvedimenti presi a riguardo. Aveva le braccia incrociate sul petto, le labbra strette in un'espressione nervosa e gli occhi a fessura.
«Non sai che dire, eh? Invece di migliorare la situazione, l'hai solo peggiorata. Complimenti!» Continuai, fingendo un miserabile applauso.
«Cosa vuoi che ti dica, Jelena? Che mi dispiace? Che è stata colpa mia? Va bene, scusami, mi dispiace, è stata colpa mia. Ma sai cosa c'è? C'è che ormai è successo e non si può tornare indietro!»
Il vicepreside ci raggiunse nuovamente. Era l'ora del verdetto. Si schiarì la voce, poi cominciò.
«Con forte rammarico devo annunciarvi che la preside ha deciso di sospendervi dalle lezioni per una settimana. Si tratta di una sospensione con obbligo di frequenza, verrete a scuola, risponderete all'appello, ma è come se non ci foste.»
«Tutto questo non ha senso.» Mormorò tra sè Chloe, le lanciai una spallata per ammutolirla.
«Le vostre famiglie verranno avvisate dell'accaduto nel giro di dodici ore» Continuò l'uomo minuto. Era fatta, la mia fine era giunta, la mia rovina.
«Io non ho una famiglia.» Disse Chloe.
«In questo caso verrà contattato il suo tutore. Adesso, perdonatemi...» Ci lasciò così, sole, senza sapere cosa fare o dove andare.
«E adesso che facciamo?» Chiesi. Mi voltai intorno, scorsi qualche sguardo curioso e un mormorio in lontananza.
«Semplice, ce ne andiamo.» Chloe cominciò a camminare in direzione della nostra aula, io la seguii come un'ombra silenziosa. «Preparati ad essere la zimbella della Hankens High School, ad essere quella che ha preso la sospensione.» Commentò.
«Ti ci dovresti preparare anche tu, allora.»
«Io sono già pronta, Jelena. E lo sai che non me ne frega un cazzo.»
E' stata la morte dei genitori avvenuta qualche mese prima dell'estate a renderla così dura e fredda, a non farle più provare alcuna paura. Fu per quel motivo che si trasferì ad Hankens, perché la zia Sue si prendesse cura di lei. Ma cosa avrebbe pensato Sue di tutto ciò? La immaginavo passare le ore seduta sul divano a fissare il vuoto, con quelle pozze scure che erano i suoi occhi. Poi entrava in camera di Chloe, prima di andare a dormire, senza avvicinarsi troppo per paura di farle male. «Chloe, parla con me, posso aiutarti. Cosa ti ho fatto per meritare di essere trattata così?» Le chiedeva.
«Niente, zia Sue, non m'hai fatto niente. Tu non c'entri.» Diceva Chloe, senza neppure guardarla.
«E allora perchè ti fai questo? Perchè mi fai questo, Chloe?»
Ma Chloe non rispondeva, me lo aveva raccontato una volta, in un suo momento di debolezza: ogni sera era sempre la stessa storia, come un film visto migliaia di volte. Non riusciva a confessarle che le mancava Rosemary, sua madre. Non riusciva a confessarle che le mancava Franky, suo padre. Le somigliava così tanto che cominciò ad odiarla. Avrebbe fatto di tutto per rivederlo anche per solo cinque minuti, per dirgli ti voglio bene, stammi vicino. Ma Franky mancava anche a Sue. Di notte accendeva un lume davanti ad una sua fotografia che teneva sul suo comò e gli parlava, gli raccontava di Chloe, della scuola e della sua vita. Però poi lo malediceva per essersene andato, per averle affidato qualcosa più grande di lei. Gli diceva che non lo avrebbe mai perdonato, poi piangeva. E, nell'altra stanza, piangeva anche Chloe.
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