13. Confessioni di fine estate - parte uno
Andrew uscì dal bagno con il viso ripulito, i capelli tirati all'indietro marcavano i lineamenti del suo volto, aveva alcune ciocche che ancora gocciolavano acqua sul collo. Si era tolto la camicia blu notte, lasciando addosso una canotta giromanica nera che gli metteva in risalto la muscolatura ben definita delle braccia. Venne verso di me, ora spostando una ciocca di capelli dietro l'orecchio, ora cercando qualcosa nelle tasche dei suoi jeans neri con degli strappi sulle ginocchia, fino a raggiungermi. Iniziò a massaggiarsi le nocche della mano destra, doveva fargli male.
«Fammi vedere.» Mormorai, avvicinandomi a lui e prendendo le sue mani. Erano ruvide e screpolate, aveva dei piccoli tagli sulle nocche circondati da un'aureola viola, volevo portarmi il suo dolore alla labbra e baciarlo, ma qualcosa mi frenava, forse l'idea di risultare patetica e fare qualcosa di azzardato. Doveva essere lui a fare il primo passo, ma io non sapevo quanto avrei potuto sopportare, quanto avrei potuto resistere a quel desiderio primordiale, fremevo ad ogni suo respiro, a quell'aria gelida che sentivo sfiorarmi la pelle, ad ogni suo passo compiuto verso di me.
«Sei sicuro di non voler andare in ospedale?» Chiesi, guardando nei suoi occhi scuri.
«Vieni, andiamo via da qui.» Disse. Mi prese per mano e mi condusse all'uscita della discoteca, attraversammo quel tunnel ombroso e fetido a passo svelto, cercavo di tenere il passo di Andrew muovendo le mie gambe dietro le sue, rincorrendolo. In tutti questi mesi, in tutti questi anni, non siamo stati altro che questo: due linee parallele che si sono rincorse senza raggiungersi mai, fino a diventare puntini indefiniti su di un foglio stropicciato. Una volta usciti dal The Old Inn, venimmo subito avvolti dal fresco vento di fine estate. La musica ancora rimbombava alle nostre spalle mentre l'esterno del locale cominciava a pullulare di gruppi di ragazzi ubriachi che si divertivano farfugliando qualcosa e lanciando lattine in un canestro fatto di bottiglie di vetro. Giungemmo in un ampio spaziale dove Andrew parcheggiò la sua motocicletta.
«Wow!» Restai letteralmente senza parole, un po' perché non mi aspettavo che Andrew guidasse una motocicletta - lo facevo più il tipo da vecchi scartocci a quattro ruote che a malapena riuscivano a percorrere le strade della sua città - e un po' perché quella motocicletta era davvero spettacolare. «Harley Davidson?» Lessi ad alta voce la firma stampata al lato del parafango, scandendo bene ogni lettera.
«Classe 1986, Heritage Softail. Era di mio padre, me l'ha regalata due anni fa per i miei diciotto anni.» Ricavò le chiavi della motocicletta dalle tasche dei suoi jeans, poi si curvò sul borsone da viaggio in pelle nera borchiato che pendeva da una delle estremità del veicolo.
«Dev'essere stata proprio una bella sorpresa, suppongo.» Andrew cacciò un casco color bordeaux dal borsone e ne pulì la visiera con un panno in microfibra.
«La teneva in garage da parecchio tempo, voleva venderla. Sono stato io ad insistere affinché me la regalasse, alla fine sono riuscito a convincerlo.» Mormorò, mentre ancora strofinava delicatamente il casco con quel panno umido. Colsi una nota malinconica nel tono della sua voce, capii di non dover andare oltre, di non dover scavare più a fondo, ma ancora non sapevo che quei silenzi improvvisi, quelle cicatrici che aveva sul cuore e che non mostrava a nessuno avrebbero influito sulla nostra relazione. Mi passò il casco lanciandogli una ultima lunga occhiata prima di porlo tra le mie mani.
«Dov'è il tuo?» Chiesi, riferendomi al casco.
«E' qui dentro.» Sollevò la sella della motocicletta, ne estrasse il casco ed una giacca nera in pelle che si affrettò ad indossare. Osservai quei piccoli movimenti, i muscoli guizzavano sotto il tessuto morbido della sua canotta e quel desiderio primordiale di unione e possesso tornò ad invadermi riscaldando il mio corpo indolenzito e tremante. Andrew salì sulla sua Harley Davidson e fece cantare un po' il motore aspettando che prendessi posto dietro di lui. Io esitai ancora, cominciai ad avere paura, a farmi mille domande. Dove mi avrebbe portata? Cosa ne sarebbe stato di noi? A cosa sarebbe servito tutto questo? In cosa mi stavo tuffando? Ne sarebbe valsa la pena? Andrew si voltò a guardarmi, alzò la visiera del casco e indietreggiò fino a trovarmelo di fianco.
«Jelena, cosa succede?» Chiese, cercando il mio sguardo. Ma io avevo gli occhi puntati verso il basso, su quell'aggeggio che facevo roteare tra le mani.
«Niente...» sussurrai. «E' solo che...» alzai lo sguardo verso lui, il suo viso illuminato dalla luna sembrava ancora più bello, la sua pelle si era colorata di un argento pallido, aveva due sfere luminose riflesse negli occhi. Restammo in silenzio per un po', con la luna negli occhi e la paura nel cuore. Perché sì, quella sera, ad avere paura non ero la sola. Anche Andrew tremava sotto quell'armatura che s'era creato, anche Andrew temeva quel che sarebbe successo sotto quel pezzo di cielo. Temeva persino più di me. Eppure, se volevamo capire cosa sarebbe successo, se volevamo scoprire quale sarebbe stata la nostra inevitabile sorte, non dovevamo fare altro che sceglierci e viverci. E noi quella sera ci scegliemmo e ci vivemmo. Andrew mi guardò con aria interrogativa. «E' solo che non sono mai salita su una moto.» Conclusi. Andrew scoppiò in una risata; arrossii, però poi iniziai a ridere anch'io. Ridemmo insieme, fino a creare un unico, dolcissimo suono.
«Vieni qui, fatti forza sulle mie spalle.» Spiegò. «Devi poggiare il piede su quella pedana e farti leva.»
Feci esattamente ciò che Andrew disse, e in men che non si dica mi ritrovai con la sella sotto il mio bacino e le gambe avvinghiate alle sue.
«Tieniti stretta.» Disse, dopo aver abbassato nuovamente la visiera. Fece retromarcia, avvolsi le braccia attorno i suoi fianchi, partì.
Parcheggiamo all'esterno di una enoteca poco affollata, un locale di pochi metri quadri con due ampie vetrine poco oscurate che davano direttamente sulla strada attraverso le quali s'intravedevano le ombre dei clienti che, con gesta composte, sorseggiavano del buon vino in compagnia di amici, amanti o uomini d'affari. Prima di entrare in quella piccola, antica taverna mi piegai verso lo specchietto retrovisore della motocicletta per dare un'occhiata al mio aspetto: d'un tratto cominciò a sembrarmi doveroso risultare carina e presentabile agli occhi di tutti. Non per compiacere me stessa, piuttosto lo facevo per Andrew, per renderlo fiero di me, fiero della donna che aveva al suo fianco. Stavo per dare una frettolosa sistemata ai capelli quando vidi l'immagine di Andrew comparire nello specchietto, proprio alle mie spalle, mi osservava con aria divertita, piegò le labbra di lato, accennando un sorriso. Mi voltai verso lui, sentii le guance fiammeggianti per l'imbarazzo.
«Sei bellissima.» Disse, ed al pronunciar di quelle parole non potei fare altro che ricordare la sera del falò, sprofondare in quel ricordo assassino, ripercorrere il dolore e contare le lacrime versate. Erano tante le cose che avrei dovuto chiedergli, tanti i conti che non tornavano, e dal canto mio non potevo più portarmi quel rancore dentro, dovevo farmi forza ed affrontare il passato, distruggere il passato. Distruggere per costruire.
Le pareti color porpora dell'enoteca erano allestite con dei portabottiglie in legno scuro che giocavano di contrasto con le etichette dorate delle bottiglie dei vini che venivano esposti. L'ambiente era poco illuminato: a creare quell'atmosfera intima e suggestiva erano delle lanterne che pendevano dal soffitto alternate a lampade dallo stile un po' retrò e dalle geometrie disparate. Un angolo della taverna era occupata da un lungo bancone alle spalle del quale erano posizionate delle antiche e preziose vetrine dello stesso colore e materiale dei portabottiglie, con bicchieri e calici di cristallo al loro interno. Davanti al bancone v'erano degli sgabelli in legno con la seduta imbottita in cuoio color vinaccio mentre il resto della sala era occupata da botti che fungevano da tavoli e sedute. Al centro di ogni botte era posizionato un vaso in vetro rotondo con delle candele galleggianti e petali di rose rosse al suo interno. Andrew scostò lo sgabello del nostro tavolo e con un movimento delle braccia mi invitò a sedere, prendendo, una volta accertato che mi fossi accomodata, posto dinanzi a me. Lanciai un'altra occhiata in giro per cogliere particolari della taverna che mi erano sfuggiti, lasciandomi sopraffare dalla bellezza insita in quel posto minuscolo e nascosto in un angolo del mondo inesplorato.
«Ti piace?» Chiese Andrew.
«Sì, è tutto stupendo.» Risposi. Cercavo di nascondere l'emozione e la timidezza dietro sorrisi tirati e sguardi persi lungo la stanza. Un cameriere ci raggiunse poco dopo consegnandoci due menù seguito da un uomo in giacca e cravatta che portò al nostro tavolo un piccolo tagliere con un assaggio di formaggi misti per stuzzicare il palato durante l'attesa. Ringraziammo il cameriere e l'uomo, nonché proprietario dell'enoteca, i quali si allontanarono per lasciarci sfogliare i menù e compiere le nostre ordinazioni.
«Posso suggerirti qualcosa io?» Andrew intervenne, consapevole della mia poca esperienza in merito. Acconsentii con la testa. «Il Bracchetto d'Acqui, è italiano. Un rosso, frizzante ma dolce al tempo stesso, è anche piuttosto leggero. Che ne dici?» Disse.
«Direi che è ottimo.»
Andrew alzò la mano per richiamare l'attenzione del cameriere.
«Un calice di Branchetto d'Acqui, uno di Kolbenhof dell'Alto Adige e una tagliata di salumi e formaggi italiani, grazie.» Il ragazzo annotò tutto su un taccuino e al termine dell'ordinazione ritirò i menù, portandoli via dopo averci gentilmente ringraziati. Adesso eravamo soli, sapevo che quello, in genere, era il momento adatto per parlare e cominciai ad agitarmi pensando a tutte quelle cose che avrei voluto chiedergli e delle quali temevo la risposta.
«Jelena...» Fu Andrew a spezzare quel silenzio imbarazzante. La sua voce nascondeva un fievole tremolio. «Jelena,» questa volta era più deciso. «Dove sei stata ieri sera?» Puntò i suoi occhi nei miei. Io fui presa alla sprovvista, non mi aspettavo quella domanda e non riuscivo a capire a cosa volesse arrivare.
«C-cosa?» Balbettai, avevo il cuore in gola.
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