2.
Deku's POV
Essere uno studente delle superiori era sfiancante.
Essere uno studente delle superiori iscritto al corso per eroi dello U.A. era la cosa più vicina al masochismo che sia mai stata concepita dall'essere umano.
Non che non fossi felice, ovvio. Avevo sognato di frequentare quella scuola per una vita intera, eppure certi giorni erano più difficili di altri.
«Izuku».
Non ebbi bisogno di sollevare lo sguardo per riconoscere il mio interlocutore.
Shoto aveva sempre quel tono di voce piatto che mi faceva venire da un lato la voglia di abbracciarlo e dall'altra quella di chiudermi in camera per piangere sulle sofferenze che avevano costellato la mia esistenza.
«Un momento», mormorai con la lingua tra i denti mentre finivo di scrivere il risultato di un esercizio con cui avevo lottato per quasi mezz'ora.
Per tutta risposta, qualcosa di morbido mi solleticò il viso. Shoto, dietro di me, si chinò fino a poggiare il mento sulla mia spalla per leggere ciò che stavo scrivendo.
Non mi scomposi troppo, non sobbalzavo più come le prime volte, eppure la sua vicinanza mi provocava sempre qualcosa che non sapevo definire.
Non saprei dire il momento preciso in cui siamo passati dall'essere compagni di corso all'essere amici, so solo che avrei messo la mia vita tra le mani di quel ragazzo dai capelli bicolore senza il minimo ripensamento e tanto mi bastava per non farmi domande a cui non ero sicuro di voler rispondere.
«È sbagliato», avvertii il suo respiro contro la mia guancia, ma ero troppo deluso per rabbrividire.
«Come scusa?», il mio tono di voce suonò di un'ottava più alta rispetto al normale, brutto segno.
Attirata dal mio lamento disperato, Momo ci raggiunse insieme ad Uraraka e buttò un'occhiata al quaderno che avevo abbandonato in preda allo sconforto mentre Denki lanciava il libro di fisica dall'altra parte della stanza sotto lo sguardo atterrito dei nostri compagni radunati in cucina.
«Midoriya, hai fatto un errore molto comune! Non hai considerato il tempo come variabile nella formula», commentò la ragazza senza scomporsi mentre il libro le volava sopra la testa.
«Il tempo!», esclamò Denki con aria sarcastica. «Lui ha dimenticato il tempo. Io non ho considerato nemmeno lo spazio in un problema che inizia con "calcola lo spazio"!».
Dopo un primo attimo di completo silenzio scoppiai a ridere seguito a ruota dagli altri e nemmeno Shoto riuscì a trattenere un sorriso.
A mano a mano iniziano a ridere tutti finché un tonfo non attirò la nostra attenzione riportandoci con i piedi per terra e lo sguardo rivolto alle scale che davano alle stanze del dormitorio.
«Oi, che cazzo è 'sto casino?».
Kacchan fece il suo ingresso in quella domenica mattina soleggiata con la solita grazia che lo contraddistingueva. Indossava un paio di pantaloni della tuta grigi ed una maglietta bianca dei Nirvana con le mezze maniche risvoltate sulle spalle.
Era andato a correre, era evidente dal leggero rivolo di sudore che scivolava lungo il suo viso e dalle vene gonfie sulle braccia muscolose.
Avrei voluto dire che mi odiava da quando ne avevo memoria, la verità era che i ricordi più belli che avevo erano in gran parte legati a quando eravamo piccoli.
Sarebbe stato più facile, per me, rassegnarmi a tutto quel disprezzo se avessi potuto cancellare dalla mia pelle la stretta della sua mano mentre mi trascinava in giro per il parco.
Sarebbe stato più facile se fossi riuscito a confondere la sua voce con le altre, se fossi riuscito a chiudere gli occhi senza sentirgli dire che mi avrebbe protetto ad ogni costo.
Me ne sarei fatto una ragione, per lo meno.
Ma non trovai mai una ragione se non quella che lui stesso mi aveva dato: la mia debolezza.
Mi aveva abbandonato con poche parole, sputate con una freddezza che non ci si aspetterebbe da un bambino di sei anni.
"Sei troppo debole, mi rallenti".
Ero uscito da pochi giorni dall'ospedale e la prima cosa che avevo chiesto era stata di vedere lui.
Perché mi mancava.
Perché pensavo fosse preoccupato per me.
Nemmeno la pioggia, quel giorno, era riuscita a cancellare le troppe lacrime che sgorgavano dai miei occhi.
Sono rimasto a guardare la sua schiena allontanarsi per quelle che sono sembrate ore senza riuscire a capire come fosse possibile che il suo abbandono facesse più male di una cicatrice che mi attraversava il corpo da parte a parte.
Non esisteva più il tempo.
Era finito, il nostro, come la sabbia in una clessidra rotta.
«Deku?»
Mi resi conto di aver fissato Kacchan per chissà quanto, lui aveva un'espressione scocciata.
«Tsk, nerd del cazzo», soffiò tra le labbra per poi voltarsi e raggiungere Kirishima in cucina.
Avvampai e portai una mano a strofinare gli occhi prima di rivolgere la mia attenzione ad Uraraka, la vidi scambiarsi un'occhiata confusa con Tsuyu.
«Non posso credere di non aver considerato il tempo».
Lei sorrise poco convinta, io ricambiai con la mente altrove.
Angolino dell'autrice
E niente, eccomi qui di nuovo.
Mi piace molto questo capitolo, più che altro perché è quello da cui ho preso ispirazione per il titolo della storia!
Mi piaceva molto l'immagine di una clessidra rotta, con la sabbia che scorre ovunque e perde granelli come attimi di vita.
Ma a voi che ve frega dei miei scleri, giustamente?
E avete ragione.
Ringrazio come sempre chi sta seguendo la storia (piccola menzione speciale a Cltenten che sta ufficializzando il mio debutto in società con i suoi commenti ♡).
Essendo la mia prima storia è molto importante per me ricevere pareri!
Madonna quanto parlo, basta!
Alla prossima,
Ella ♡
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