II.
Quello era finalmente il grande giorno e no, non stavo parlando del primo giorno di scuola, ma del fatto che quel giorno, per la prima volta dopo 487 anni, avrei potuto finalmente sentire il calore del sole sulla mia pelle.
Mi preparai il più velocemente possibile, infilai un paio di leggings neri e un maglioncino bordeaux, bevvi una sacca di plasma e chiusi la porta alle mie spalle.
La casa era circondata da alberi, per cui dovetti percorrere un breve tragitto per raggiungere un punto in cui battesse il sole.
Quando arrivai alla linea che separava l'ombra dalla luce esitai un po'.
E se l'anello non avesse funzionato? E se la strega avesse sbagliato qualcosa, o peggio, se mi avesse ingannata per il solo gusto di farmi soffrire?
In fondo io ero andata molte volte contro l'etica delle streghe e poi quell'anello era magnifico, troppo bello per essere anche utile.
Però esitare non mi sarebbe servito a nulla, dovevo provare.
Pian piano misi metà della mia mano fuori dalla barriera d'ombra e vidi che non era successo assolutamente nulla. Cosicché avanzai di qualche passo e mi esposi completamente sotto la luce del sole.
Era stranissimo ma allo stesso tempo magnifico, era da secoli che non provavo quella sensazione. La mia pelle sembrava molto più chiara e luminosa del solito ed al tatto era più calda, avevo passato secoli avendo la pelle completamente algida.
L'unica pecca era che il calore non mi pervadeva all'interno: io ero morta e quello era il prezzo da pagare. Da allora avrei finalmente potuto guardare in modo diretto il sole senza essere intralciata da vetri oscurati.
Restai imbambolata per alcuni minuti a guardare che effetto faceva vedere la mia pelle in quella nuova forma, finché non mi accorsi che era giunta l'ora di andare da Dayla.
La raggiunsi in trenta secondi e la trovai sull'ingresso ad aspettarmi. Sotto la luce del sole casa sua era molto diversa, i colori erano molto più caldi ed era più accogliente, sotto il chiarore della luna sembrava la classica casa degli orrori.
«Allora com'è stato sentire il calore del sole dopo cinque secoli passati a nasconderti nell'ombra?».
«Sono 487 anni, non cinque secoli dannazione», pensai.
«Tu come ti sentiresti se parlassi con una delle tue antenate morte da così tanto tempo?», le risposi ignorando il suo errore.
Lei mi guardò con disprezzo ma non aggiunse nient'altro, si era offesa. Io non capivo perché le streghe ci tenessero tanto ad antenate con cui non avevano mai intrapreso una conversazione.
Il resto del tragitto verso la scuola fu silenzioso e dannatamente lento, in fondo ci stavamo avvicinando al centro e di sicuro non potevo mettermi a usare la super velocità rischiando di farmi vedere dagli umani.
Quando arrivammo davanti al cancello della scuola Dayla andò a salutare una sua amica, fantastico: ero rimasta sola.
Varcai l'ingresso e rimasi stupita: non ero mai entrata in una scuola, fino ad alcuni decenni prima non era accessibile a chiunque, per cui tutto ciò che sapevo l'avevo imparato da sola.
La struttura era enorme, di color rosso carminio e costituita da molti piccoli mattoni. Assomigliava ad una villa, ma era molto più grande.
Anche il cortile era immenso, brulicava di studenti che parlottavano tra loro a gruppetti.
Ad un certo punto qualcuno si accorse della mia presenza e qualche istante dopo sentii gli occhi di tutti su di me, in fondo ero la ragazza nuova proveniente da un paese sperduto in Groenlandia e sicuramente sarei stata l'argomento principale dei loro pettegolezzi almeno per quel giorno.
Riuscii a sentire ogni loro stupito commento: dal "che troia" o dal "sembra simpatica" di qualche ragazza, al "che figa" di alcuni ragazzi.
Qualcuno mi guardava con sufficienza, qualcun altro con disprezzo, alcuni con la bocca aperta e altri semplicemente con curiosità.
«Ma perché ora gli umani sono così stupidi e superficiali?», mi chiesi.
Io non lo capivo. Nel XVI secolo non erano tutti così.
Ero così impegnata ad ascoltare ciò che gli altri avevano da dire su di me che, quando raggiunsi l'ingresso, non mi accorsi nemmeno di essere andata a sbattere contro qualcuno.
Prima figura di merda: fatta.
Quando alzai la testa, vidi un ragazzo.
Lo scrutai per un momento: era alto, circa un metro e ottantacinque, dalla sua t-shirt si potevano intravedere i pettorali scolpiti, i suoi capelli erano castani, molto scuri. Era un bel ragazzo, lo dovevo ammettere, ma appena lo guardai negli occhi ci fu qualcosa che mi fece raccapricciare. Erano grigi, un colore molto raro, ma non era quello che mi aveva fatta reagire in quel modo, però non riuscivo a capire che cosa.
Pochi istanti dopo mi toccò il braccio e mi chiese se mi fossi fatta del male.
Il suo tocco mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Non sono mai stata meglio, grazie», gli risposi freddamente, i miei occhi erano ancora spalancati, e pensai che si potesse ben vedere una luce di terrore. Ma cosa mi stava succedendo?
«Perché mi stai guardando in questo modo? Sono così brutto?», mi chiese ridendo, ma a me non veniva per niente da ridere. «Comunque io sono Tyson. Tu devi essere Charlotte presumo, la nuova».
«La nuova», ripetei con disprezzo. «È così che mi avete classificata?», gli chiesi fulminandolo con uno sguardo pieno di odio.
Ok, potevo accettare di essere chiamata troia, stronza, insopportabile, senza cuore e con tutti gli aggettivi possibili. Ma "la nuova" proprio no, era da quasi cinque secoli che vivevo e che continuavo a soffrire, per cui non avevo proprio nulla di nuovo.
«No, io non intendevo questo», come no. «Non volevo offenderti. Per farmi perdonare posso aiutarti a cercare la classe in cui devi andare?».
«Ce la posso fare anche da sola, ma grazie per l'interessamento», alzai gli occhi al cielo e lo sorpassai.
In lui c'era qualcosa di soprannaturale, ma sapevo per certo che non era né un vampiro né una strega, e quelle erano le uniche creature che avevo incontrato fino ad allora.
••• 🥀 •••
La classe di letteratura si trovava alla fine del corridoio sulla destra, almeno era stato facile trovarla. Varcai la soglia quando la campanella iniziò a suonare, almeno non ero arrivata in ritardo e mi ero risparmiata altre occhiate indiscrete, o forse no.
«Tu devi essere Charlotte Hamilton, giusto?», mi chiese il professore di letteratura.
«Sì, chi altri se no».
Poi mi fece avvicinare alla cattedra e mi presentò alla classe: nome, dove vivevo prima del trasferimento e quanti anni avevo, come se ne avesse saputo veramente qualcosa.
«Siediti pure nell'ultimo banco a destra, è l'unico rimasto vuoto».
Quando attraversai l'aula per raggiungere il mio posto sentii ancora gli occhi di molti ragazzi su di me, e io odiavo essere al centro dell'attenzione.
Nel posto accanto al mio c'era un ragazzo, i suoi capelli erano dello stesso colore del miele e i suoi occhi erano verdi, come i miei.
Aveva un'aria così familiare, ma non l'avevo mai visto prima, era impossibile: erano passati 95 anni dall'ultima volta in cui ero venuta in questa città e lui non poteva essere un vampiro, ero in grado di capirlo dal ritmo del battito del suo cuore.
Lo conoscevo, ne ero certa.
Ma non riuscivo a collegarlo in nessun modo al mio passato.
Stavo provando una sensazione strana, come se avessi avuto un buco nel cervello, che desiderava solo di essere colmato.
C'era un mistero dietro a ciò, ne ero sicura, ed ero intenzionata a risolverlo.
«Piacere, io sono Mason», mi tese la sua mano ma io esitai un po' prima di stringerla, non ero abituata ad avere contatti diretti con gli umani, ma dovevo fare uno sforzo se volevo sopravvivere in quella società.
Mi stava scrutando in modo diverso da come mi avevano guardata gli altri fino ad allora, come se mi conoscesse da molto tempo.
Avrei dovuto smetterla di pensare così tanto, stavo diventando paranoica.
«Tu hai sempre vissuto in questa città?», azzardai a chiedere.
«Sì, mio padre era il sindaco e io non sono mai uscito di qui».
In quel momento ebbi la conferma che era assolutamente impossibile che lo avessi già incontrato prima, a meno che non stesse mentendo.
«Perché era?».
«È morto quest'estate».
«Oh, anche i miei genitori sono morti».
«Entrambi? E allora vivi da sola?»
«No, abito con mio fratello».
«E perché sei scappata dalla Groenlandia?».
Prima che potessi rispondere a quella domanda dell'interrogatorio il professore ci interruppe.
«Charlotte, visto che hai così tanta voglia di parlare, perché non mi dici in che anno è nato Shakespeare?».
Alcune galline ridacchiarono sotto i baffi, convinte che io non sapessi rispondere. Andiamo, davvero credevano che una vampira della mia età che aveva vissuto quelle cose in prima persona non le sapesse?
«1564», risposi automaticamente.
«Dimmi la data precisa».
«23 aprile 1564, a Stratford-upon-Avon», così iniziai a parlare di tutta la sua vita lasciando a bocca aperta il professore, il quale mi assegnò una nota positiva.
«Come fai a sapere tutte queste cose?», mi chiese Mason sotto voce per evitare di farsi sentire un'altra volta dal professore.
«Consideralo un piccolo hobby personale».
«Sai, domani ci sarà la festa di inizio anno scolastico, dovresti venire, così potrai conoscere gli altri studenti».
«Non credo proprio».
«E perché no?».
«Non voglio provocare un bagno di sangue».
«Sai, non ho un accompagnatore e non ho la minima intenzione di starmene in un angolino da sola», e poi non sapevo ballare. O meglio, sapevo ballare, ma solo le canzoni che si ballavano fino a qualche decennio prima. Quella contemporanea non si poteva nemmeno definire musica.
«Nemmeno io ho un'accompagnatrice, per cui possiamo andarci insieme. Fidati che ci divertiremo, e poi ci saranno fiumi di alcol».
La parola "alcol" fece scattare qualcosa nella mia testolina che mi fece cambiare idea.
«D'accordo, ma io non ballo, ti avverto».
Il resto della lezione fu dannatamente noioso, il prof parlò di tutte cose che già sapevo alla perfezione perciò quando sentii il suono della campanella uscii dalla classe il più velocemente possibile.
••• 🥀 •••
Alla seconda ora c'era matematica, per cui dovevo assolutamente muovermi a cercare la professoressa.
«Tu sei Charlotte, non è vero? Sai stavo pensando di farti fare un test d'ingresso per vedere a che punto sei con il programma».
«È uno scherzo?», mi chiesi.
«Lei non mi farà fare nessun compito, non mi farà domande davanti a tutta la classe, non mi interrogherà oralmente e mi darà sempre il massimo dei voti».
Mi ero ripromessa di non usare le mie abilità a scuola, ma era necessario. Non potevo far capire a nessuno che non sapevo nemmeno le tabelline, con le lingue e le altre materie di studio me la cavavo benissimo, ma con le materie scientifiche proprio no, in 487 anni non avevo mai avuto a che fare con la matematica, e ciò provava che fosse totalmente inutile.
Quando entrai l'aula era ancora vuota, per cui potei scegliere dove sedermi, optai per la terza fila, vicino al muro.
La classe iniziò pian piano a riempirsi di ragazzi che si conoscevano ormai da anni e che si sedevano vicini, per cui io restai da sola finché una ragazza non si avvicinò a me. Era alta circa un metro e settantacinque e aveva delle curve da invidiare, i suoi capelli erano nero corvino, molto lunghi, con delle leggere onde e lasciati sciolti. La sua pelle era olivastra, arricchita da molte lentiggini sul viso, e i suoi occhi erano dello stesso colore del cioccolato.
«Posso sedermi qui?», mi chiese indicando il posto vuoto accanto a me.
«Certo».
«Io mi chiamo Katherine, tu devi essere Charlotte», affermò.
Ma come diavolo facevano a sapere tutti chi ero?
Era una scuola con più di duemila studenti, non duecento.
«Allora come ti trovi a Honey Ylenol?».
«Sono qui solo da ieri e non ho ancora fatto nulla, perciò non posso trarre nessuna conclusione».
«Se ti va dopo scuola possiamo andare a mangiare qualcosa insieme e poi fare un giro, così possiamo conoscerci meglio. Poi ti voglio far conoscere i ristoranti migliori della città».
Lei sembrava molto entusiasta ma c'era solo un piccolo problema: io non mi nutrivo di cibo da umani.
«Scusa ma oggi ho promesso a mio fratello che avrei passato l'intera giornata con lui».
«E tu ci vai al ballo sabato sera? Potremmo andare insieme a fare un po' di shopping».
«D'accordo», sperai solo che non fosse una di quelle ragazze che sprecavano mezz'ora per scegliere tra due abiti.
La professoressa ci assegnò alcune espressioni, ma io rimasi a fissarle per dieci minuti senza sapere da dove iniziare.
«Ti serve una mano Charlotte?», mi chiese Katherine.
«Ora manca solo che la mia noiosa compagna di banco si accorga che non ho mai partecipato ad una lezione di matematica», pensai.
«Non offrirmi mai più il tuo aiuto in una lezione di matematica e non guardare quello che scrivo».
Lei annuì ma la sua espressione era confusa, come se la compulsione non avesse funzionato.
Quando sentii il suono della campanella mi sentii rinata: dover ascoltare una professoressa che sembrava star parlando una lingua antica era estenuante.
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