Capitolo 18
Forse sono morta
Guardavo il mio corpo steso sul pavimento, ero immobile; provai a toccarlo, era gelido.
Sono morta
Non può essere vero
Non posso più parlare con nessuno, non so come stia Caleb o mamma o papà. Chris, Will, Zeke e gli altri.
Tobias.
Non ho fatto in tempo a dirgli che lo amo e che non avrei voluto lasciarlo.
Mi affacciai alla finestra e vidi un'ambulanza e un gruppo di medici che correvano in nostro soccorso con due barelle. Sollevarono il corpo di Caleb e lo appoggiarono delicatamente sul lettino, poi fu il mio turno. Ci caricarono sulla vettura e partirono in tutta fretta verso l'ospedale. Cercavano di rianimare sia me che Caleb ma non credo che i loro sforzi servissero a qualcosa. Ad un tratto la ragazza gridò: "L'attività cerebrale del ragazzo è ripartita. È ancora vivo, grazie al cielo." Mi avvicinai a mio fratello e misi una mano sul suo petto: il suo cuore batteva ancora. Aprì gli occhi di scatto e iniziò a tossire violentemente e a gridare il mio nome. Quanto avrei voluto dirgli che stavo bene, ma evidentemente non era proprio così. Sedarono Caleb per farlo riposare e stare calmo e intanto si occuparono di me. Io, dal mio canto, mi sentivo così stanca e debole e mi lasciai cadere sul pavimento, addormentata.
Quando mi risvegliai, ero davanti al mio corpo in una stanza di ospedale; vidi i fili che mi collegavano a quella macchina che respirava e viveva per me.
Almeno ho una speranza.
Ma vedermi in quello stato mi faceva venire il volta stomaco.
Medici e infermieri camminavano avanti e indietro nella stanza per controllare la stabilità dei miei valori; avrei voluto gridargli di andarsene via, volevo stare da sola con me stessa: vedere tutta quella gente intorno a me mi infastidiva. Quando si fece sera, mi lasciarono in pace; avevo intenzione di cercare Caleb ma mi sentivo talmente debilitata che mi accasciai sulla sedia più vicina e rimandai le mie ricerche all'indomani.
Mi svegliai con il sole che entrava dalla finestra della camera, mi alzai in fretta e andai a cercare mio fratello.
Era in una stanza non molto distante dalla mia e al suo capezzale c'era mia madre: stavano conversando animatamente, Caleb sembrava stare abbastanza bene aveva solo qualche taglio sulle braccia e sulle gambe e un graffio in faccia. Chiedeva di papà. "È andato a cercare la stanza dove hanno portato tua sorella." sospirò mia madre, con gli occhi bagnati di lacrime. Mio padre si avvicinò e le sussurrò che mi aveva trovata; insieme si alzarono e raggiunsero il mio corpo, steso su quello squallido lettino: vedermi così faceva così male, sia a me sia a chi mi voleva bene. Mia madre piangeva stringendomi la mano e mio padre cercava di essere forte per lei.
Calde lacrime si facevano strada lungo il mio viso, mentre mia madre sussurrava che sarebbe andato tutto bene; chissà se ci sperava davvero.
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Avevo scoperto che Tris era in gravi condizioni, in una stanza di ospedale collegata a macchine che la tenevano in vita. Stavo piangendo, senza nemmeno saperlo, da più di un'ora: era colpa mia. Tutta colpa mia. Come sempre. Non avevo ancora avuto il coraggio di andarla a trovare, mi sentivo così codardo e colpevole che incontrare lo sguardo di Caleb o quello dei suoi genitori o vedere il suo corpo mi avrebbe probabilmente ucciso.
Mi accasciai a terra addormentato, sfinito dal troppo pianto.
Sognai Tris che camminava, la raggiungevo incredulo: lei era morta eppure era lì; ma lei non mi riconosceva. Ad un tratto la sua faccia cambiò in quella di Uriah sofferente che sussurrava che l'avevo ucciso e che non avrei mai ricevuto perdono per quello che avevo fatto.
Mi svegliai gridando.
Avevo già fatto quel sogno.
Quando ero negli Abneganti.
Mi chiesi come fosse possibile, capii solo che dovevo evitare il peggio, dovevo evitare di non ricevere il perdono delle persone che amavo. E poi Tris non era ancora morta. C'era ancora una speranza.
Mi precipitai all'ospedale.
Dovevo vederla e chiederle scusa, dirle quello che non ero stato capace di dirle quando era ancora al mio fianco: che l'avrei protetta e amata se solo lei me ne avesse dato la possibilità.
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Caleb era appena uscito dalla mia stanza, dopo essermi venuto a salutare. A differenza degli altri, era entrato sorridendo e mi aveva aggiornato su quello che succedeva intorno a me, su quanto fossero scortesi le dottoresse, pessimo il cibo ed espresse i suoi apprezzamenti su un'infermiera dai lunghi capelli ramati, che teneva sempre raccolti in una lunga ed elaborata treccia.
Quando uscì, con lo stesso sorriso di quando era entrato, incrociò un ragazzo sulla porta. Era più alto di lui, aveva i capelli corti e le spalle larghe e possenti. C'era un solo ragazzo che conoscevo che corrispondesse a quella descrizione.
Tobias
Calò il silenzio quando lui vide mio fratello. Dal suo volto, invece, non scomparve il sorriso. "È in ripresa, forse ce la farà." Fu ciò che disse Caleb e, dopo aver dato una gentile pacca sulla spalla di Tobias, tornò nella sua camera.
Tobias si avvicinava lentamente, quasi avesse paura. Poi sussurrò: "Guarda cosa ti ho fatto... è tutta colpa mia. Se non mi avessi ascoltato, se ti avessi lasciata andare. Non ce la faccio, senza di te. Fuori è tutto così terribile, lo è sempre stato per me; ma da quando sei arrivata tu, era tutto più bello, era tutto meno buio. Era tutto più mio. Mi sentivo a casa, non mi ero mai sentito così con nessuno al mondo. Sei stata capace di amarmi senza nemmeno accorgertene. Però ora sei qui, e non me lo perdonerò mai. Se mai ti sveglierai, dimenticami. Non seguirmi. Starai meglio senza di me. Continuerò ad amarti ma tu non preoccupartene. Non meriti tutto questo. Non meriti me."
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Stava piangendo mentre parlava.
Non potevo dimenticarlo, mi aveva dato speranza e mi aveva insegnato che avrei potuto essere e fare tutto nella vita, non limitarmi a quello che avevo ma creare nuovi orizzonti più lontani.
Non potevo non perdonarlo.
Non potevo pentirmi di averlo amato e di amarlo ancora.
Stavo piangendo anche io.
Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene.
Ma non potevo.
Per un attimo non sentii più la terra sotto i piedi.
Cosa stava succedendo? Poi capii.
Ero pronta.
Non riuscivo a vedermi così, a vedere tutta quella gente guardarmi in quel modo: come se mi sarei potuta svegliare da un momento all'altro e tutto sarebbe tornato come prima.
"Niente sarà più come prima.
Lascerò tutto.
Il mio dolore finirà e presto anche il loro." Pensai.
"Ti amo" sussurrai a Tobias che usciva dalla porta.
Poi sentii solo un fastidioso rumorino continuo.
Lui si voltò.
Era troppo tardi per chiedere scusa, per dire qualsiasi cosa.
Il tempo era finito.
È difficile da spiegare, ma ad un certo punto senti che non hai più uno scopo, una motivazione, e ti lasci andare. Fa male, è difficile, ma in cuor tuo senti sempre di aver finito.
Come il sole che tramonta, lascia spazio alla luna. E finisce tutto.
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