Capitolo 3
L'aria era opprimente. I suoi polmoni facevano fatica e lei non riusciva a respirare.
Lo spazio era troppo stretto e i suoi occhi guizzavano come impazziti seguendo il movimento delle sue stesse mani.
La luce filtrava da uno spiraglio troppo sottile, ma non era sufficiente.
Non le dava la possibilità di vedere in modo chiaro.
Cercava freneticamente una via di fuga, sapeva di dover trovare un modo per poter uscire da lì, non sapeva come però.
Non voleva subire una seconda punizione da suo padre, non sarebbe riuscita a sopravvivere a un'altra notte in una cella angusta senza né bere né mangiare.
Era cosciente di potercela fare, lo aveva già fatto in precedenza e prima ancora aveva dovuto aspettare che fosse suo padre a liberarla. Questa volta poteva avere il pieno controllo. Doveva solo pensare a mente lucida.
Il cuore le martella nel petto e le lacrime iniziarono a pizzicargli gli occhi, sapeva che queste reazioni erano dovute alla paura di non riuscire ad uscire da quel luogo troppo stretto. Spinse con forza il coperchio del baule pensando a sua madre, alla discussione che lei avrebbe avuto con suo padre sul modo in cui veniva addestrata.
Aveva chiamato i metodi di suo padre delle torture e anche Artemis lo sapeva che quella era una punizione, non un vero e proprio addestramento.
Suo padre sapeva quanto quel luogo angusto e buio la terrorizzasse, eppure tutte le volte che sbagliava qualcosa usava la scusa di testare le sue abilità per poterla rinchiudere in quella misera scatola.
Artemis volle gridare, volle chiamare sua madre per aiutarla, per uscire da quel minuscolo spazio che non le dava nemmeno la possibilità di respirare.
Se sua madre avesse saputo dove si trovava non avrebbe esitato a tirarla fuori di lì.
Sentì all'esterno la presenza di suo padre, percepì il suo tono di voce neutro che le diceva: «ti sta rimanendo poco tempo bambina».
Non la chiama mai per nome, non usava nomignoli carini, per lui lei era un soldato o quando era arrabbiato era una bambina.
Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro profondo, diede la possibilità alla sua mente di ragionare. Di trovare una soluzione più rapida.
Si ricordava del pugnale che aveva lasciato nello stivale e lo estrasse velocemente.
Le sue mani cercarono a tentoni i cardini e i punti dove li tenevano fermi le viti.
Con la punte del pugnale iniziò a girare.
Doveva muoversi. Quando le prime due viti vennero fuori fece un lungo respiro di sollievo.
Ne mancavano solo sei. Ce la poteva fare, doveva solo fare in modo di non perdere di nuovo il controllo.
Il sudore le imperlava la fronte e le mani le scivolavano dalla presa sul pugnale, ma non si lasciò scoraggiare, era vicina alla libertà.
Perse la pazienza, fece saltare con forza l'ultimo cardine e aprì il baule con tutta la forza che aveva.
Riprese a respirare velocemente, seguendo il ritmo martellante del suo cuore.
Suo padre la osservava con i suoi profondi occhi verdi e l'espressione dura del soldato sul volto.
E Artemis riuscì a percepire solo da quello sguardo che la sua punizione era appena cominciata.
Artemis abbassò l'archetto del violino e osservò la lapide bianca con sopra riportato il nome di sua madre.
Era stata lei a scegliere quel luogo di sepoltura, da sopra quella collina era possibile osservare il mare che circonda l'intera isola.
Si poteva percepire il profumo dell'erba fresca che si incontrava con quello salmastro del mare all'orizzonte. Il tramonto era il più bello del mondo da quell'altezza ed era inoltre il preferito di sua madre.
Si toglieva sempre le scarpe quando si inerpicano lungo il versante della collina per arrivare in cima. Diceva di adorare la sensazione dell'erba sotto i suoi piedi nudi, di riuscire a entrare in contatto con la natura in modo diverso.
Le mancava molto, senza di lei non era facile trovare armonia e pace in un costante mondo fatto di sangue e violenza.
«Sapevo che ti avrei trovata qui»
Raphael Goldcross si posizionò al suo fianco, tenendo le mani giunte dietro la schiena.
Le sfumature ramate dei suoi capelli risaltavano alle prime luci dell'alba, il sorriso sulle sue labbra era dolce e faceva spuntare una fossetta sulla guancia sinistra, mettendo in risalto il colorito caldo della sua pelle e le piccole lentiggini che gli adornavano il naso.
Artemis conosceva quel sorriso, era stato quello di un amico di infanzia e di un bambino che l'aiutava ad arrampicarsi sugli alberi. Nonché l'unico amico che si fosse mai permessa di avere.
«Ciao Rose.» Quel soprannome la riportava indietro di molti anni, quando un tempo la sua vita non era costante esercizio fisico e spezzamenti di ossa, ma la vera vita di una bambina che si godeva i suoi anni migliori.
I suoi occhi si soffermarono in quelli color miele del ragazzo, «suoni ancora il violino» notò lui con piacere.
Artemis ripose lo strumento nella custodia che aveva lasciato davanti alla lapide e tornò a osservare il suo migliore amico.
«Tua madre mi ha salvato la vita nell'ultima missione» cambiò discorso Artemis ricordando il debito che ora lei aveva nei confronti di sua madre.
Raphael liquidò l'argomento con un gesto della mano, «mi ha detto che non le devi nulla, ti ha protetto perché ti vuole bene e non voleva che io ti perdessi.»
La risposta di Raphael era sincera, non c'erano giri di parole.
«E anche i tuoi veleni sono stati utili.» Un lieve sorriso affiorò sulle labbra di Artemis.
«Mi hanno riferito che la tua ultima missione è stata completata in modo eccellente» il suo sguardo si soffermò sull'orizzonte prima di tornare ad incontrare nuovamente il suo, «come tuo collega sono fiero di te e come tuo migliore amico sono sollevato.»
Prima che Artemis potesse aggiungere altro lui la afferrò per il braccio e la strinse a sé.
«Sei diventato sentimentale» lo accusò Artemis ridendo e ricambiando il suo abbraccio.
«Lo sono sempre stato.»
E lei sapeva che stava dicendo la verità. Raphael era sempre stato pura luce di positività e amore incondizionato. Viveva per essere sempre allegro e infondere questa allegria anche negli altri, sin da quando erano piccoli.
Quando le cose andavano male Artemis sapeva di poter contare sempre su di lui. Erano diventati fratelli anni prima e da allora erano rimasti il porto sicuro l'uno dell'altra e compagni di squadra contro le regole delle loro stesse famiglie.
Artemis però doveva rompere quel momento, dovevano discutere della nuova missione che suo padre le aveva assegnato
Si allontanò dall'abbraccio di Raphael, «dobbiamo discutere del motivo che mi ha riportato a casa.»
«Parli degli omicidi?» le domandò Raphael con la fronte corrugata e Artemis annuì con un flebile cenno del capo.
«Mio padre vuole sapere per quale motivo due dei suoi cadetti sono morti» lo aggiornò lei massaggiando con le dita gli occhi stanchi per la notte passata in bianco.
«Anche mio padre vuole capire perché tre dei suoi esperti di veleni siano morti in laboratorio, la nostra è una delle strutture più sorvegliate» la avvisò Raphael, «mio padre mi ha messo a fare tutto l'inventario e a controllare l'intera serra per controllare che non fosse sparito qualcosa.»
Le sue parole erano cariche di preoccupazione e dal viso era sparito il suo caratteristico sorriso.
«C'è un elemento in comune nelle morti» lo avvisò Artemis, ne aveva notato il dettaglio e forse era l'unico ad essere saltato all'occhio appena aveva letto i risultati del coroner.
«Ho visto i corpi, non vi sono segni comuni o elementi sul cadavere che possano collegare i deceduti. Inoltre le nostre famiglie si odiano da centinaia di anni, quali potrebbero essere gli elementi comuni che collegano queste persone?»
La domanda di Raphael era lecita. Le loro famiglie si odiavano da intere generazioni, non avevano mai collaborato e non avevano mai condiviso informazioni.
I cadetti delle accademie o gli apprendisti non si incontravano mai, firmavano lunghissimi contratti di riservatezza e non gli era permesso familiarizzare con elementi delle altre famiglie.
Artemis ricordava quando suo padre aveva torturato uno dei suoi cadetti solo perché si era venuto a sapere che frequentava uno dei corridori della famiglia Blackfox. Era impresso nella sua memoria dato che suo padre aveva obbligato lei a condurre l'interrogatorio come prova della sua lealtà.
Erano queste le motivazioni per le quali lei e Raphael collaboravano in segreto, nessuno sapeva che fossero amici, non voleva nemmeno pensare che cosa avrebbe fatto suo padre se avesse scoperto che collaboravano durante le missioni.
«Sono stati avvelenati con il mercurio.»
Artemis spostò il suo sguardo verso il mare, dove il mare si incontrava con il cielo all'orizzonte.
«Hai quella faccia» le fece notare Raphael, «quella che mi ricorda tutte le volte che sei sempre dieci passi avanti agli altri.»
«L'avvelenamento da mercurio è lento e ne vedi gli effetti sul corpo, soprattutto se lo si ha ingerito per lunghi periodi di tempo o se si è stati a contatto.» Spiegò Artemis con calma cercando di far comprendere a Raphael quali sono i suoi sospetti.
«Mi stai dicendo che l'avvelenamento non è stata la causa della morte?» le domandò lui confuso.
«No, sono l'elemento in comune che lega i cadaveri perché il mercurio è stato iniettato dopo la morte.»
Raphael si portò una mano tra i ricci castani, un gesto che lo caratterizzava quando stava ragionando su qualcosa.
«Non ci sono segni di punture da ago sui corpi» le fece notare lui, «avete controllato tra le dita dei piedi?»
Raphael scosse il capo. Sbiancò. Sembrava quasi che non riuscisse a credere alle sue parole o forse si sentiva semplicemente in colpa per non aver notato un elemento tanto importante durante l'ispezione dei corpi.
Lui più di chiunque altro sapeva che c'erano diversi modi per avvelenare qualcuno, era stata lei a insegnarglielo a dirgli quali fossero i diversi punti in cui nascondere la puntura di una siringa.
«Mio padre mi ammazzerà per non averlo notato» il tono di voce del ragazzo era carico di panico.
«Pensavo che lui avesse esaminato con te i corpi» e a quella affermazione Raphael scosse il capo ancora più preoccupato.
Artemis comprendeva la sua angoscia, pretendevano sempre la perfezione da loro e non si potevano permettere di perdere elementi importanti che potessero dare loro un vantaggio sulle altre famiglie.
«Non è colpa tua Raph» tentò di tranquillizzarlo lei addolcendo il tono di voce, «sono fotutto».
«No non lo sei» il tono di lei ora era deciso, non ammetteva che si auto colpevolizzi in quel modo. Raphael non era stato addestrato per essere preparato ad analizzare un cadavere nei minimi dettagli. Lui era un chimico ed elementi del genere possono sfuggirgli.
«Se avete bruciato i cadaveri tuo padre non può notarlo» lo rassicurò Artemis, «ora fai un bel respiro profondo, mi serve che il tuo cervellino torni ad aiutarmi.»
Raphael fece un bel respiro profondo e si rilassò. Il suo corpo non era più un fascio di muscoli tesi e il lieve tremore alle mani sembrava attenuarsi.
Lei era l'unica che poteva comprendere quale fosse il suo conflitto interiore, sapeva che cosa si provasse a non riuscire a raggiungere le aspettative degli altri. Aveva passato la sua intera adolescenza a cercare di compiacere suo padre. Voleva essere la versione migliore del soldato che lui aveva in mente.
Thomas Goldcross era molto simile a suo padre, era un uomo di scienza, non ammetteva errori specialmente da suo figlio.
«I corpi sono stati bruciati» ripetè Raphael per convincersi che suo padre non poteva venire a conoscenza del suo errore se non ci fossero state più le prove.
Artemis annuì e gli diede un leggero colpetto affettuoso sulla spalla tentando di tranquillizzarlo.
«Hai già parlato con Nicholas e Talia delle tue teorie?»
La domanda di Raphael la prese per un secondo in contro piede. Non vedeva Nicholas e Talia da molto tempo ormai.
Erano passati quasi cinque anni dall'ultima volta che si erano parlati. Suo padre l'aveva tenuta impegnata con molte missioni in giro per il mondo non dandole la possibilità di mettersi in contatto con i suoi cugini.
«Credi che tuo padre vi abbia tenuti lontano apposta?» le domandò Raphael e Artemis lo aveva sospettato.
Sua madre era morta quando lei aveva quattordici anni e da allora suo padre non aveva più voluto avere nessun contatto con la famiglia Bloodhood.
Lei aveva creduto per molto tempo che sua madre e suo padre si fossero sposati solo per provare ad unire il potere di entrambe le famiglie, per formare una buona alleanza strategica.
Dopo la sua morte però suo padre era peggiorato e Artemis aveva sospettato per un momento che ne fosse veramente innamorato, nonostante questo andasse contro tutto quello in cui credeva.
Forse c'era stato veramente un momento in cui si erano amati davvero, dove tutto non contava ed esistevano solo loro due, ma Artemis faticava quasi a crederlo.
Lei credeva che suo padre volesse punirla dopo la morte di sua madre. Da allora era riuscita a vedere i suoi cugini di nascosto e quando il suo addestramento aveva cominciato a dare i suoi frutti l'aveva spedita in missioni in giro per il mondo per tenerla il più lontano possibile da Hollowraven e i suoi cugini.
«Lo sospetto» la sua voce era un sussurro, il tono non troppo basso per lasciarsi udire da lui.
«Se come dici tu è avvelenamento da mercurio dobbiamo controllare se anche le altre famiglie hanno avuto a che fare con gli stessi omicidi» ragionò velocemente Raphael, «parla con i tuoi cugini e mandami Nyx quando sarai pronta, non vediamoci alle ville.»
***
L'abitazione dei Bloodhood era immensa e piena di guardie.
La villa della famiglia era una residenza in vecchio stile gotico imponente. Presentava alte torri con guglie appuntite e archi ogivali. Le pareti che costituivano la villa erano in pietra scura avvolta in alcuni punti da edera e muschio, conferendo alla struttura un aspetto antico e misterioso.
L'abitazione era circondata da alti muri in pietra e protetta da alti cancelli in ferro che riportano lo stemma di famiglia: un complesso intricato di radici che si aggrappano ad un'unica goccia di sangue.
Sua madre le aveva sempre detto che il simbolo rappresentava il sangue versato per raggiungere quella terra e costruire una nuova vita.
«Devo vedere i gemelli» le parole di Artemis erano dure come la pietra quando parlò con la guardia davanti all'ingresso della villa.
«Mi stanno aspettando» continuò lei con sicurezza notando il tergiversare della guardia.
Se non voleva farla entrare lui si sarebbe aperta un passaggio con la forza e poteva essere meno piacevole di quanto potesse immaginare.
La guardia riferì velocemente le sue parole attraverso un microfono e per la prima volta Artemis era nervosa.
Non vedeva i suoi cugini da cinque anni e non poteva nemmeno immaginare come potessero reagire in sua presenza o in ogni caso a una sua visita improvvisata.
La risposta giunge in fretta e la porta si aprì. Prima che lei potesse fare il primo passo la guardia la ammonì con i suoi piccoli occhi scuri, «si trovano nella biblioteca».
L'ingresso principale era grandioso, con un soffitto a volta e pavimenti in marmo nero. Un elegante lampadario gotico pendeva dal soffitto.
I tacchi dei suoi stivali crearono un suono deciso sul pavimento, tanto da rimbombare nel silenzio che sembrava avvolgere la villa come una coperta.
La biblioteca si trovava nell'ampio atrio in mezzo alle due gradinate che portavano ai piani superiori, incastonata come un antico diamante nell'elegante struttura.
Ricordava molto le antiche biblioteche di Oxford dove aveva dovuto fingersi una studentessa durante una delle sue tante missioni.
Gli scaffali erano in legno scuro e arrivano fino al soffitto. Le finestre ad arco erano una delle poche fonti di luce in quella sala.
I volumi rilegati in pelle erano antichi e trattano diversi argomenti: alchimia, occultismo e storia.
Lo scopo di Artemis però non era soffermarsi sull'architettura o sulla lettura dei tomi, lei stava cercando i gemelli.
Li trovò facilmente. Nicholas era seduto su una delle eleganti poltrone in pelle marrone, le lunghe gambe appoggiate sul tavolo in legno massiccio di fronte a lui.
Talia spiccava senza problemi in quella stanza grazie al colorito argenteo dei suoi capelli. Era seduta sul tavolo e stava sfogliando disinvolta le pagine di un vecchio libro di medicina.
Se c'era una cosa che la natura aveva dato a questi due gemelli era sicuramente la bellezza, ma non un tipo di bellezza qualsiasi, quella unica e irraggiungibile.
Talia aveva un viso a cuore delicato con zigomi alti e ben definiti. Il fratello si discostava di poco dalla sua somiglianza con un viso ovale e una mascella forte ben definita.
Se i capelli di Talia erano del colore dei raggi lunari quelli del fratello erano neri come ombre di mezzanotte.
Questa non era l'unica differenza che poteva vederli simili, ma distanti allo stesso tempo come il giorno e la notte.
Quando entrambi alzarono lo sguardo per incontrare il suo era lì che la vera gemma della loro bellezza risalta sui loro incarnati olivastri.
Talia aveva profondi occhi color zaffiro e Nicholas spiccava con maggiore prepotenza con il suo sguardo eterocromatico: un occhio del colore degli zaffiri e uno dello stesso colore degli smeraldi al sole.
Artemis costrinse le sue gambe a fermarsi davanti alle due eleganti figure dei cugini che la osservavano incuriositi.
«Artemis Serenity Thornerose» Nicholas scandì per intero il suo nome quasi fosse un gioco di parole, mentre sul suo viso si faceva largo un sorriso giocondo.
«Credevamo che ormai fossi diventata una leggenda metropolitana.»
Artemis cercava di non mostrarsi infastidita davanti al commento del cugino, ma quello che le uscì era più una smorfia indispettita.
«Sai cugino sono stata impegnata, le missioni, i segreti di Stato, le cose da spia, mio padre...» iniziò a elencare Artemis per ricordargli per quale motivo non aveva mai l'occasione di incontrarli, evitando di ammettere che aveva paura che suo padre potesse fare loro del male se solo ci avesse provato.
Talia inarcò le sopracciglia perfettamente curate e incrociò le braccia al petto, come per proteggersi. Solitamente era lei la più ragionevole tra i due.
«Occupata o nascosta? Sai, sarebbe stato bello sentirti ogni tanto. Cinque anni sono tanti.»
«Ti sei persa la sua laurea in medicina» le ricordò Nicholas, facendola sprofondare nel senso di colpa.
Quando sua madre era ancora in vita ci teneva molto che lei provasse a socializzare con i suoi cugini.
Roxanne era molto legata alla sua famiglia e a suo fratello maggiore e pretendeva che lo stesso legame si formasse tra loro. Artemis adorava i suoi cugini, ma suo padre aveva smesso di proteggere la famiglia Bloodhood nell'esatto momento in cui era morta sua madre e non voleva immaginare cosa avrebbe potuto fare se lei avesse deciso di mantenere un rapporto positivo con loro.
«Non era mia intenzione. Ho dovuto prendere decisioni difficili, per proteggervi e per proteggermi. Non sempre c'è tempo per le spiegazioni.»
Si giustificò lei guardando Talia dritto negli occhi e quello che lei ricambiò era uno sguardo dolce ma determinato.
«Ci sei mancata, lo sai? Non eravamo solo un team, siamo una famiglia. E la famiglia non si lascia indietro.»
Nicholas si alzò dalla poltrona seguendo a ruota la sorella che le si avvicinava per stringerla in un dolce abbraccio ricco della sua solita e familiare amorevolezza.
«Siamo rimasti sorpresi quando le guardie ci hanno detto che una Thornerose era veramente davanti ai nostri cancelli.»
Le parole di Nicholas erano confortevoli, lui era sempre stato più ironico di Talia. Lei era quella dolce e ricca di empatia, Nicholas quello che scherzava sempre, che non riusciva mai a rimanere serio per più di cinque secondi. Per Artemis era un sollievo sapere che nessuno dei due fosse cambiato molto durante gli anni.
«Sei venuta per colpa di tuo padre vero?» le domandò Talia sciogliendo l'abbraccio e asciugando una lacrima che era sfuggita al suo controllo.
«In via ufficiale diciamo di sì» rispose lei curvando gli angoli delle labbra verso l'alto in un sorriso felino.
«Mi piace, quindi tuo padre non sa che sei qui» sottolinea Nicholas, «stai di nuovo passando la fase di ribellione adolescenziale?»
«No, voglio solo sapere se anche alcuni dei vostri hacker sono stati uccisi.»
Talia sbiancò e il suo volto sembrò perdere il colorito ambrato che la caratterizza. L'unica reazione di Nicholas fu un sussulto e per Artemis era la conferma che anche tra le mura di villa Bloodhood era successo qualcosa che era stato insabbiato.
«Come lo sai?» le domandò Talia sorpresa abbassando il tono di voce per non farsi sentire da orecchie indiscrete.
«Perché è lo stesso che è successo ad alcuni dei nostri cadetti» rispose Artemis con sincerità.
«Credi che gli omicidi siano collegati?» Nicholas sembrava visibilmente preoccupato e affiancò la sorella per darle supporto.
«Avete analizzato i corpi?»
«Non ancora se ne doveva occupare il nostro medico legale» le rispose velocemente Nicholas notando che le mani della sorella iniziavano a tremare per la preoccupazione.
Talia non era mai stata fatta per quella vita, non aveva mai voluto seguire gli affari di famiglia. Per questo si era laureata in medicina. Lei voleva salvare vite, non toglierle.
Il vero cervello dietro le attività della famiglia Bloodhood era Nicholas. Artemis sapeva che era lui ad addestrare i nuovi hacker e a gestire buona parte degli affari di famiglia a Hollowraven mentre i loro genitori non erano presenti.
Si era preso lui quella responsabilità per proteggere Talia.
«Talia mi serve il tuo aiuto» Artemis spostò lo sguardo da Nicholas a Talia perché poteva essere l'unica in grado di fare quello che le avrebbe chiesto.
Talia annuì con un flebile cenno del capo, tentando di riprendere il controllo di sé stessa.
«Devi controllare se i corpi che sono stati trovati presentano un avvelenamento da mercurio post-mortem e controllare se sia stato iniettato tra le dita dei piedi.»
«Ci coinvolgerai in qualsiasi cosa tu stia complottando alle spalle di tuo padre?» la domanda di Nicholas era genuina, voleva solo comprendere quello a cui sarebbero andati in contro se avessero cercato di aiutarla.
«Non farò niente che voi non vogliate» giurò Artemis ed era la pura verità. Non li avrebbe mai messi in pericolo se loro non avessero voluto, avevano tutto il diritto di fare le loro scelte nonostante fossero nati in un modo che non gli aveva dato il permesso di farlo.
Nicholas si scambiò una rapida occhiata con la sorella e ad Artemis sembrò quasi una comunicazione telepatica. Non avevano bisogno di parlarsi si capivano al volo, forse questo era uno degli effetti collaterali di condividere la stessa placenta.
La risposta di Nicholas non tardò ad arrivare quando sapeva di avere il consenso della sorella, «noi vogliamo sapere.»
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