Capitolo 7
"Ci sono tre cose veramente dure: l’acciaio, il diamante e conoscere se stessi"
(Benjamin Franklin)
CHATO'S POV
"Gran bella situzione..." pensai, ascoltando insieme ai miei tre amici i rimproveri e le urla dell'anziana signora che mi aveva sbraitato contro dal giardino.
"Tu, razza di delinquente tutto scritto!" Sbottò indicandomi e alludendo alla moltitudine di tatuaggi che mi rivestivano la faccia e il corpo, osservandoli disgustata.
Alzai un sopracciglio, come a volerla esortare a continuare e lei mi accontentò, facendo finta di non vedere gli sguardi che i miei amici si lanciavano fra loro come a voler dire "povera psicopatica".
"Vieni dentro e raccogli quel mozzicone di sigaretta!" Mi ordinò, indicando la cicca ormai spenta ricoperta dal terriccio umido del giardino, che odorava di inverno ed erba appena falciata.
"Se la cosa le fa piacere..." risposi ironicamente, entrando nel giardinetto e raccogliendo la cicca, facendo una mezza espressione schifata quando i polpstrelli toccarono la terra fredda, umidiccia e fangosa del suolo.
"Tuo padre non ti ha insegnato le buone maniere, Santana?" Mi domandò la donna, portando le braccia al petto e squdrandomi con sufficienza.
Che diamine?
"Come sa il mio cognome, pratica stregoneria?" Domandai, trattenendo un ghigno divertito, dimenticandomi quasi della presenza di Angie Lou, Jason e Julia, che seguivano la scena attenti come aquile e silenziosi come se non avessero l'uso della parola.
La donna roteò gli occhi, cercando di non mandarmi a quel paese.
Peccato che con me l'impulso era abbastanza forte, di norma.
"No, conosco tuo padre..."
"Appunto: mio padre. Ma non me, quindi la domanda ora diventa un'altra: Come sa che io sono suo figlio?" Ridomandai, alzando un sopracciglio.
"Se mi lasci spiegare, ragazzino..." mi appellò, spazientita.
Portai le braccia al petto, e la esortai a mandare avanti il suo discorso.
L'aria frizzante della costa avrei potuto dire che mi accarezzava il viso, ma quella brezza fresca in realtá sembrava mi stesse prendendo solo a sberle gelate, facendomi desiderare con tutto il cuore di essere a casa mia, con una coperta e una "dolce compagnia" da una notte.
"Mia figlia lavora presso l'azienda di tuo padre, quando mi viene a fare visita parla solo di tre cose:
O di quanto sia faticoso il lavoro, o di quanto tuo padre sia una brava persona..."
Quelle parole era strano sentirsele dire, quando eri abituato a frasi come "tutti gli amici poco affidabili" oppure "brutti giri" o ancora "ragazze e ragazzi di ghetto".
Brava persona...
Era vero: mio padre era una brava persona, dal cuore grande e cervello funzionante.
Una persona eccezionale con un figlio di merda, però.
"O del noto Chato Santana: il diciotenne megalomane che ci prova con qualsiasi ragazza respiri e che fa scherzi di pessimo gusto ai colleghi del padre riuscendo sempre a cavarsela" terminò, alzando le sopracciglia in uno strano segno di "hai capito ciò che intendo?".
"Una descrizione fedele, non c'è che dire..." risposi, facendo un mezzo sorriso in contrasto rispetto alla mia espressione gelida.
"Sei abbastanza noto a Los Angeles, più che altro per la tua fama di...come dite voi giovani?..." domandò, portandosi un indice al mento in cerca della parola, per poi sorridere soddisfatta.
Quel giorno le persone strambe erano tutte sul mio cammino, a quanto pareva...
"Ah, si: puttaniere" finì, soffiando fredda e acida l'ultima parola, osservandomi fredda.
"Ah così: senza filtri?" Chiese Julia, intromettendosi, alzando leggermete le mani e facendo una piccola e veloce "X" con le braccia.
La signora non le prestò la ben che minima attenzione, continuando a fissare me.
"Se pensa di avermi offeso può rimanere fresca quasi quanto questa cazzo di aria che mi gela la faccia" risposi, fissandola sprezzante, per poi schiodarmi dalla mia posizione e avviandomi verso il cancello, aprendolo per incamminarmi lontano da quell'anziana.
Non sapevo perchè, non aveva detto nulla di tanto male, ma non avevo voglia di venire sgridato come un moccioso da una vecchia che pensava di sapere come offendere tutti con tutto, anche uno come me che aveva il cuore rivestito da una corazza di indifferenza e roccia.
"Arrivederci" sentii dire a Julia ed Angie Lou, prima che esse mi raggiungessero.
"Buona serata" disse Jason, con un leggero gesto del capo all'anziana.
Persone educate, loro...
La signora non rispose a nessuno dei saluti dei miei amici, si limitò a guardare me che mi allontanavo indifferente e infreddolito, con la testa persa chissá dove.
"Ma sei scemo?!?" Mi chiese Julia, prendendomi per una spalla e costringendomi a guardarla.
"Lo sai che mi rompo il cazzo con i moralisti" risposi sgarbato, scrollandomi la sua mano di dosso.
Lei mi guardò attonita, stoppando i suoi passi.
"Chato: ma cosa aveva detto di male?"
"Nulla. Peró mi da' fastidio che le persone pensino di conoscermi solo per due pettegolezzi di quartiere" risposi sgarbato.
"Ma se sei tu il primo a confermarli, quei pettegolezzi di quartiere!" Mi rimproverò lei, alzando la voce.
"Io li confermo, ma quelle chiacchere non sono tutto quello che sono io" risposi, storcendo le labbra.
Il tempo sembrò congelarsi, in quel momento, forse anche più della temperatura del vento.
"Sei veramente un degno figlio di Platone!" Mi canzonò, ridacchiando sarcastica.
La Marmaid Beach Coast era diventata silenziosa. A scandire il silenzio solo il vento gelido fra le fronde delle palme e la litigata fra me e Julia, mentre Angie e Jason erano pietrificati, sicuramente indecisi sul come dovevano intervenire.
"Tu invece di tua madre neanche un po': una psichiatra in casa si sarebbe dovuta accorgere dei disturbi mentali della figlia!" Sputai acido, senza pensare.
Mi pentii subito di quelle parole, ed ero quasi sul punto di scusarmi, ma qualcosa dentro di me lo impedì.
Orgoglio.
Il mio stupido, fottutissimo orgoglio.
Lo stesso che mi aveva portato a commettere errori madornali e a dire cazzate ancora più grandi.
Julia mi fissò stranita...e delusa, per un attimo mi sembrò sul punto di piangere, ma mi ricredetti quando le vidi il viso storpiarsi per un fiotto di rabbia.
"A volte non riesco veramente a capirti!" Urlò, alzando le braccia al cielo.
"Julia, calmati..." cercò di sedare Jason, ma la mia amica lo interruppe.
"Calmati un corno!" Rispose, focalizzando l'attenzione su di me, mentre stringevo le mani cercando di controllare il moto di rabbia che mi pervadeva il corpo.
"Non riesco mai a capire come sei: sono anni che ci provo, Cristo! Come fai a passare dall'essere il mio migliore amico allo stronzo colossale che conoscono tutti in meno di un secondo?!? Chi diamine sei dei due?!?
Il mio Chato Santana..." stava per dire, per poi gettare una rapida occhiata a Jason ed Angie, che ci guardavano immobili come statue.
A cosa pensavate voi due, eh?
"Il nostro Chato Santana...o quello che conoscono tutti?" Si coresse, con tono più dolce.
Spiazzato.
Bella domanda: chi ero veramente?
Ero un ragazzo qualunque interressato alla matematica e che pagava senza problemi la cena ai propri amici, o ero un ragazzo qualunque che rispondeva male a tutti e faceva finta di essere meno intelligente di quello che in realtá non era?
Non c'era risposta: dopo che ti costruisci tante maschere e le porti avanti per anni, in fondo, queste si ramificano nella tua anima, facendoti dubitare se fossero davvero travestimenti o parti nascose del tuo essere.
Parti nascoste del tuo vero essere.
"Allora?" Domandò ancora, serrando le mani.
Non risposi, ma non abbassai lo sguardo.
Tieni a freno la lingua, ma mai l'orgoglio.
Uno dei miei mantra, uno dei tanti che mi permetteva di sopravvivere al mondo.
Julia mi lanciò un'ultima occhiata implorante, ma anche questa volta non la degnai neanche di una sillaba.
Si voltò verso Angie, gettando un'occhiata a suo orologio da polso.
"È tardi, torniamo a casa..." le disse semplice, voltandosi di spalle.
"Si, è tardi..." confermò Angie, guardandomi e scuotendo il capo come unico gesto di rimprovero e saluto.
"Ciao Jason, cerca tu di risolvere questo dannato rebus umano" gli disse Julia, guardandomi triste e arrabbiata, per poi allontanarsi a passo svelto, seguita da sua sorella, sparendo dietro una delle ville, illuminata solo dalla luce dei lampioni.
Scossi la testa, voltandomi dall'altro lato e continuando a camminare.
Sentii il rumore delle scarpe di Jason alle mie spalle, che facevano tintinnare eccessivamente la ghiaia della strada, facendomi intuire che stava correndo per raggiungermi.
"Cazzo Chato, ma che diamine hai stasera?!?" Sbottò, mettendosi di fronte a me, cercando di bloccare il mio passo.
Mi fermai un attimo, solo uno, per guardarlo negli occhi, poi mi spostai leggermente a sinistra, dandoli una spallata al mio passaggio.
"Se devi farmi la predica pure tu te ne puoi tranquillamente andare..." gli dissi secco, andando chissá dove.
Ma che importava, in fondo?
Avanti, indietro, destra, sinistra, sud, ovest...tutte coordinate per andare in qualche posto che valeva come un altro.
"Il vento ti ha congelato il cervello per caso?!?" Ignorò completamente il mio avvertimento.
Portai gli occhi al cielo.
Non ti incazzare, non ti incazzare, non ti...
"Jason santo cielo! La vuoi piantare pure te, Madre de Dìos!" Urlai, accellerando il passo.
Passammo di fronte alla baia e ai vari lidi serali che la illuminavano con mille luci colorate e corpi giovani ed allegri che bevevano cocktails e ballavano ubriachi, ridendo sguiatamente e pomiciando senza alcun ritegno.
Pansate che fino al giorno prima anche io ero ridotto a quello stato pietoso, probabilmente...
"Sei troppo nervoso" Mi disse Jason, scuotendo la testa e guardando un gruppo di ragazze sulla spiaggia.
"Cosa c'è "Monsignore Jason": Adocchi delle ragazzine..." lo punzecchiai.
Non stavo sorridendo, la mia non era una battuta, ma un vero e proprio modo per farlo incazzare.
"Anche tu le adocchi, di tanto in tanto" rispose a tono.
Cocciuto di un Moriarty...
"Non so se hai capito che voglio stare solo"
"Non so se hai capito che se continui di questo passo ti manderanno tutti a quel paese"
"Non so se hai capito che non me ne fotte nulla" risposi, voltandomi per la prima volta nella sua direzione.
Jason serrò la mascella mascolina, incrociando le braccia al petto e assumendo uno sguardo e postura gelida.
Complimenti a me stesso, riuscivo a fare incazzare pure il mio migliore amico!
"Io vado...domani magari l'altra parte bipolare torna a dominare..." disse, voltandosi senza dire nulla e allontanandosi a passo svelto, sotto lo sguardo famelico di una ragazza, che neanche calcolò.
Ispirai a fondo l'aria fredda, stringedo i pugni e continuado il mio percorso.
Aveva ragione lui: magari l'indomani mi sarebbe passato tutto.
"Ehi, guarda lá..." sentii sussurrare a una ragazza riccia all'amica accanto a se', indicandomi con un leggero cenno del capo.
Mi voltai nella loro direzione per un attimo: erano carine, se fossi stato di altro umore magari ci avrei provato...ma non era giornata.
Le ignorai completamente, continuado a camminare.
Mi sembravano tutte uguali, le ragazze: tutte alla ricerca del grande amore, del ragazzo perfetto, tutte shopping, trucchi e film d'amore...
Julia ed Angie Lou erano una piccola eccezione, le avevo scelte come amiche grazie a quello: perchè non erano come le altre.
Non ero maschilista, il voler prevalere su una donna lo trovavo un atteggiamente completamente stupido ed insensato, così come non ero femminista: erano due facce della stessa medaglia, dannosi entrambi, che la gente combatteva ma che appoggiava al tempo stesso grazie a tutti quei soffocanti stereotipi con i quali viveva la societá.
La donna faceva i figli.
L'uomo serviva per i figli.
La donna era più intelligente.
L'uomo era più forte.
Cazzate: c'erano donne forti e stupide, così come c'erano uomini deboli e più intelligenti.
Servivamo tutti e due per fare un figlio, nessuno era più o meno importante sotto quel punto di vista.
La luna era l'unica compagnia nel cammino silenzioso e tormentato che stavo percorrendo.
Mi fermai di colpo, in un cuniculo buio, che odorava di malavita, e osservai l'astro argenteo che splendeva nel buio della notte: quale serata migliore per pensare ai propri peccati? Quali condizioni migliori per pensare a quanto crudele la vita possa essere?
Ero solo, come tutti siamo destinati a rimanere, prima o poi.
Ero frustato, in modo che non potessi provare altre emozioni all'infuori dell'odio e della tristezza, sia verso gli altri che verso me stesso.
Ero confuso, a causa dei troppi pensieri.
E soprattutto ero in un vicolo abbandonato, scuro come le tenebre, a ricordarmi che uno dei miei incubi maggiori era nato proprio lì, in una di quelle stradine.
E ora dovevo ricordare.
Tutto, fino in fondo, con più dolore che potevo.
"Colpa tua..." sussurravano maligni i ricordi, ripescando immagini che avevo rinchiuso nei cassetti più profondi della mia mente.
"Non c'è più"
"Colpa tua"
"Dovevi stare più attento"
"Colpa tua"
"Vandalo di strada"
"Colpa tua, solo colpa tua!"
Una fitta mi travolse la testa, un coniato di vomito lo stomaco.
Ecco, in quei momenti rischiavo di impazzire, seriamente.
Alcune volte avrei preferito poter mettere il mondo e i pensieri in silenzioso, come si faceva con le impostazioni del cellulare.
Ero uno stupido, lo ero sempe stato.
Ero colpevole, da sempre.
"Sei forte Chato, una delle persone più forti che io conosca.
Hai subito un forte trauma, e lo capisco, ma devi combattere Chato, lo devi fare sempre.
Accetta il passato, solo così potrai vivere serenamente; non rinchiudere mai i brutti ricordi, si liberano sempre prima o poi.
E fanno sempre più male, quando succede."
Avevo buttato ai cani i tuoi consigli, Valerya, da bravo stupido quale ero: pensavo che io, meglio di altri, potevo solo sapere come gestire la situazione.
Erano i miei incubi, dopotutto.
Ed ecco che la situazione era degenerata, avevi ragione tu: erano riaffiorati, i ricordi, e avevano fatto più male, mi avevano trascinato ancora un po' più giù all'Inferno.
E ora potevo solo rinchiuderli, sperando che sarebbero ricomparsi il più tardi possibile.
Non potevo più accettare quello che avevo fatto, non ne ero più capace.
Dannazione: perchè avevo preferito rimanere solo quella sera?
Un soffio gelido passò attraverso il giubbotto, portatore di odore di tempesta; era ora di tornare a casa.
"Bravo: dimentica..." sussurrava la voce nella mia testa, quella voce amica e nemica, che mi condannava ma che mi salvava al tempo stesso.
Allontanare l'errore, ma nel farlo avvicinarlo sempre più.
Mi guardai attorno, per vedere un ultima volta il vicolo buio, per poi fare marcia indietro.
Uscii dal tanfo di anfetamine e spazzatura che lo infestava, quando la vibrazione del cellulare in una delle tasche del jeans fece fermare la mia avanzata.
"Papá o Lola, di sicuro." pensai, prendeno il cellulare.
Osservai il display, pronto a vedere la foto lampeggiante di mio padre o di Lola.
Ma non in quel caso.
Il numero era segnato come sconosciuto, ma l'indicatore del luogo diceva che chi chiamava lo faceva da Los Angeles.
"Qualche stupida pubblicitá." Pensai, aprendo la chiamata.
"Che offerta del cazzo volete farmi?" Domandai, scocciato.
"In veritá nessuna. Solo un atto di educazione..."
ANGOLO AUTRICE: I'm back!
Salve a tutti amorciti e bentornati nella mia storia.
Non ho molto da dirvi oggi, tranne che ringraziarvi per tutti i voti e le letture chei state dando.
Però non cavilliamo su questo, ma su altri due punti, che saranno le domande del capitolo:
1) Chato accenna sempre di più ad un brutto ricordo legato al suo passato che l'ha scosso molto nel profondo.
Secondo voi cosa potrá mai essere?
2) Chi sarà la voce dall'altro capo del telefono?
Ditemi cosa ne pensate, sono curiosa!
Perfetto, credo di non avere altro da dire, ci vediamo il prossimo mese!❤💙
Ps: La foto a inizio capitolo è "Notte stellata" di Vincent Van Gogh.
Il significato si adatta in maniera quasi uguale al capitolo e ai sentimenti e alla persona di Chato, e ho trovato opportuno metterlo.
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