Capitolo 2
CHATO'S POV
"Chato, alzati una buona volta! Hai scuola madre de dios!" Mi urlò mio padre, entrando in stanza.
Alzai con sufficenza la mia faccia dal cuscino, per poi ributtarla giù malamente, troppo stanco anche solo a pensare che stava per iniziare il mio nuovo anno scolastico.
"Avanti! Chato devo andare a lavoro, sbrigati!" Mi disse per l'ennesima volta papá, sistemandosi la giacca nera e costosa con fare maniacale.
"Mi chiedo ancora perchè non me ne sono andato da questa casa quando sono diventato maggiorenne..." pensai ad alta ed assonnata voce, gustandomi il tepore delle lenzuola e ripensando al mio diciottesimo compleanno, avvenuto qualche giorno prima.
"Forse perchè da solo ne combineresti una più grossa dell'altra, e ora sbrigati" mi spiegó con fare serio papá, per poi avvicinarsi al mio letto minaccioso.
"Solo due minuti, ti prego, tanto sai che soni veloce a prepararmi" mugugniai.
Anche se non lo vedevo sapevo per certo che in quel momento stava roteando gli occhi, lo faceva sempre quando si rassegnava a qualcosa.
"Due minuti esatti, poi giuro che ti butto giù dal letto!" Mi avvertì serio e scherzoso allo stesso tempo, io sorrisi da sotto il cuscino, un po' per il divertimento dovuto alla battuta di papá e un po' per la gioia di potermi gustare ancora per due minuti il mio soffice letto.
"Mmhh..." mugignai di piacere mettendomi in posizione fetale e gustandomi il dolce tepore delle coperte.
Avevo sempre adorato il caldo: sia quello del sole che dell'aria, ma soprattutto quello delle persone e dell'alcool.
Mi ricordavo che questi ultimi due gli ho molto apprezzati ieri sera, alla festa di "fine estate" (infondo era solo il ventisette ottobre) di Jason.
Non mi ricordavo molto, perchè ero mezzo fatto di cocaina e ubriaco marcio...la mia mente aveva solamente l'immagine di io che baciavo, in una maniera per niente casta ed innocente, una ragazza mora con gli occhi verdi mentre lei mi sussurrava, fra uno schiocco e l'altro, qualcosa all'orecchio, che io ricambiai con un sorriso malizioso.
Poi niente, solo il rumore ovattato della porta di casa mia che si apriva cigolando sotto la mia stretta e io che andavo nel mio bagno a vomitare a causa delle troppe birre che avevo ingurgitato.
Al solo pensiero un leggero fiotto di acido mi si riversò in gola, aspro e corrodente, lo ingoiai, sapendo che appena avessi visto un qualsiasi tipo di liquido il mio stomaco si sarebbe preparato alla rivoluzione.
"Prima di prepararti alla rivoluzione preparati per la scuola, invece!" Disse fastidiosa ed acuta una piccola vocina nella mia testa, la stessa che la sera prima avevo beatamente ignorato quando mi aveva detto di non accettare neanche una sola birra o un solo tiro di marijuana.
Brontolai, alzandomi.
Ero una persona molto strana, che pochi capivano e che troppi giudicavano: a volte mi capitava di pensare una cosa, e l'attimo dopo di pensare il contrario.
Ecco, anche quella mattina il mio bipolarismo si scatenò: sapevo che erano passati a malapena trenta secondi da quando mio padre mi aveva dato tregua e mi aveva concesso altri tre minuti di sonno, sonno che io avevo perso completamente, in quel momento, ma io ero così: volevo tutto e il contrario di tutto, ero tutto e il contrario di tutto.
Mi andai a fare una doccia per prima cosa, perchè ero più che sicuro che puzzavo di alcool e droga, e non volevo che mio padre mi rimproverasse anche quella volta.
Mi tolsi il pigiama (anche se non era un vero e proprio pigiama dato che dormivo solo con i miei boxer) e mi misi sotto il box doccia, regolando la temperatura dell'acqua rendendola il più calda che riuscissi a sopportare.
Quando l'urto bollente mi colpì la pelle sembrò che lavasse via ogni odore, ogni colpa, ogni errore...i miei muscoli si rilassarono e passai ad insaponarmi con il bagno-schiuma all'arancia e cannella, l'unico con l'odore così forte, ma allo stesso tempo piacevole, che copriva gli altri acri e infetti.
Appena finii uscii dal box ormai con i vetri appannati e andai a prendere un asciugamano pulito, passandomelo per tutto il mio corpo.
Appena fui abbastanza asciutto mi guardai allo specchio: corpo ambrato rivestito di tatuaggi, allenato e prestante; occhi scuri; testa rasata; viso anche quello tatuato dai tratti latini e la solita espressione gelida.
A volte mi chiedevo a chi assomigliassi di più, della mia famiglia. E il pensiero volava istintivo a mia madre.
La stessa madre che, dopo avermi partorito, ci aveva abbandonati, a me e a mio padre.
Mi ritrovavo spesso a pensare se erano suoi i tratti leggermente spigolosi o il taglio dei miei occhi, o le labbra sottili.
Strinsi il ripiano in marmo del lavandino, ribollente di rancore e ira, guardando i miei stessi occhi riflessi, saggiandone la scintilla iraconda simile a quella di una bestia.
Strinsi di più il bordo freddo e duro, senza staccare i miei occhi dal riflesso e sentendo chiaramente le vene sporgete dai miei bicipiti.
Avevo voglia di prendere a pugni lo specchio, credendo a una folle e cieca convinzione che, distruggendolo, avrei spazzato via anche il minimo accenno di ereditá genetica che la stronza, che continuavano a dire fosse mia madre, poteva avermi trasmesso e che si disintegrasse insieme a lei.
Ma per non farmi prendere dalla rabbia nei suoi confronti pensavo che, in fondo, ero la copia di mio padre, e che nessuno più di lui potesse assomigliarmi.
"Torna in te" pensai, rillasando i muscoli, staccandomi dal lavandino e dal mio riflesso, per poi dirigermi a passo svelto in camera mia, lontano dai brutti pensieri che avrebbero infestato per ore quel bagno.
Mi avvicinai al mio armadio, quasi incasinato come me, e aprii le ante grigie;
Non ero una persona che si perdeva a scegliere i vestiti, come lo erano mio padre o il mio migliore amico Jason, ma non mi piaceva neanche andare a scuola vestito alla bell'in meglio: dopotutto avevo una reputazione da rispettare e tante ragazze a cui soddisfare la vista...
E con quei pensieri in testa afferrai un jeans blu scuro, una canottiera bianca e una giacca da baseball blu scura tendente al nero, con le maniche in pelle azzurre e i bottoni bianchi.
Mi infilai un boxer e poi passai a vestirmi, infilando il tutto velocemente e incastrando la canottiera dentro i jeans.
Mi misi delle scarpe da ginnastica bianche e consumate ed infine infilai il giubbotto, per poi andare a passo svelto verso il mio capello nero NY, girandolo al contrario.
Mi guardai nello specchio dell'armadio e fui soddisfatto del mio aspetto: ero comodo ma alla moda, semplice per non attirare ecessiva attenzione ma attraente da attirare gli sguardi delle persone che mi interessavano...
Presi il mio zaino blu e uscii dalla mia camera, chiudendo la porta.
Sin dal corridoio illuminato giungeva profumo di caffè e brioches, segno che Lola Soledad aveva appena finito di cucinare.
Scesi le scale bianche e arrivai nell'ampia e luminosissima sala da pranzo, dove papá era impegnato a bere il suo caffè mattutino e Sol che trasportava dei cornetti.
"Buenos dìas Sol" salutai, cercando di essere il più dolce possibile, fallendo miseramente.
Lo sguardo carbone della mia governante schizzò subito a me, mentre le sue labbra carnose si stendevano in un sorriso amorevole.
"¡Oh, mi Chato! Buenos dìas a tì, chico.
¿Que tal?" Mi domandò con tono dolce e roco, quello che ti aspetti da parte della perfetta governante cinquantenne delle telenovela.
Mio padre bevve l'ultimo goccio di caffè, per poi appoggiare la tazzina bianca sul piattino, con un ticchettio.
"Stavo venendo a chiamarti...mi aspettavo di trovarti avvolto nelle lenzuola, così pigro e stanco da non volere neanche respirare" mi disse sarcastico, guardandomi con i suoi occhi neri da sotto gli occhiali da sole scuri.
Io afferrai un pezzo di pane tostato e lo afferai con i denti, lasciandolo penzoloni in bocca, mentre con le mani libere afferravo il mio cellulare appoggiato a uno dei tanti comodini beige e il caricatore bianco che avrei utilizzato a scuola, pensando che, con molta probabilitá, la sera prima ero così stordito da non avere caricato il cellulare.
Mi misi il tutto in una delle tasche dei jeans e con la mano destra riafferrai il pezzo di pane dalla bocca, notando che papá e Soledad mi avevano osservato per tutto il tempo, attendendo una risposta.
"Sai come sono fatto, ora andiamo che devi andare a lavoro!" Lo presi in giro adando verso l'ingresso, salutando Lola Soledad con un leggero cenno della mano e un'impercttibile alzamente del capo, lei ricambiò con un sorriso.
Una bella donna, Lola, non dimostrava per nulla i suoi cinquanta anni, se non per delle leggere rughe d'espressione.
Mio padre la assunse quando io ero solo un bambino, sei/sette anni forse, e ricordo che la prima volta che la vidi lei mi salutò in modo affettuoso, quasi mi conoscesse da una vita:
"Sei davvero un bel bambino, Chato! Hai due occhi così neri e profondi! Inoltre papá mi ha detto che sei molto intelligente, con la faccia furba che ti ritrovi non potrei dire altrimenti!"
Mi disse in un sorriso spontaneo, bianco come la neve, abbassandosi flettendo le ginocchia fino a raggiungere la mia altezza.
A quel tempo ero un bambino che sembrava molto freddo e taciturno (cosa che sarei diventato successivamente), ma che in fondo era soltanto timido, soprattutto con il genere femminile.
E in quel momento ero super imbarazzato, perchè dovevo ammettere che Lola era bella anche a quel tempo, con i suoi lunghi capelli color ebano, la pelle abbronzata e i tratti latini.
"A-a-anche lei signora è molto bella, e anche gentile" risposi rosso come un pomodoro, grattandomi la nuca.
Lei sorrise ancora di più, così tanto che gli occhi carbone si ridussero a due fessure.
'Ti ringrazio Chato! Però non chiamarmi "signora"; siamo amici in fondo, chiamami Lola, o Soledad, come preferisci" mi raccomandò alzandosi e dirigendosi da mio padre, prima di dedicarmi un ultimo fugace sorriso con le sue labbra rosee.
"Dove sei stato ieri sera?" Mi chiese mio padre appena entrammo nella nostra Sportage nera.
Io non risposi, mi limitai ad appoggiare lo zaino ai piedi e a posare la testa al finestrino leggermente appannato, causato dal clima freddo fuori, nella speranza che mio padre la piantasse...ma in fondo la testardaggine dovevo per forza averla ereditata da qualcuno...
"Allora?" Domandò, leggermente spazientito, premendo l'acceleratore e facendo partire la macchina.
Anche quella volta dalla mia bocca non uscì alcun suolo, mentre svogliatamente appoggiavo il mento sul mio polso tatuato, mantenendo la testa sul vetro e lo sguardo perso chissa' dove.
"Chato! Dove sei stato?!?" Mi urlò, stringendo i pugni sul volante, voltandosi verso di me.
A quel punto mi voltai verso i lui, per la prima volta, cercando di non farmi saltare i nervi.
"A casa di Jason e George" risposi semplicemente, senza fare trapelare la minima emozione e fissando la strada, nella speranza che si bevesse la semi-menzogna, dato che a casa di Jason e George ci ero adato per davvero quella sera.
"Fino alle tre di sera?" Non demorse lui.
"Sei cocciuto!" Pensai.
Mantenni la mia espressione gelida e lo sguardo fisso sulla strada, spirando di sollievo quando vidi "Clakford street", la via che precedeva la mia scuola, di tre minuti all'incirca.
"Li sai i miei orari" risposi.
Lui mi gettò un'occhiata omicida da sotto gli occhiali da sole.
"E quello che ti vedo sul collo è solo un livido che ti sei provocato urtando contro un tavolo, vero?" Mi chiese accennando un sorrisseto finto divertito, facendomi sobbalzare.
Aprii il mio cellulare e presi la fotocamera, cercando di non sembrare nervoso e sperando che sul collo non avessi...
"Porca miseria..." pensai sgranando gli occhi osservando il segno rosso e violaceo che svettava sul mio collo, vicino a uno dei miei tatuaggi...e non era di certo un livido.
"So dove sei stato Chato, so cosa hai fatto, so che non avevi avvisato, nè a me nè a Sol, so che hai bevuto e so che hai fatto ben altro a quella festa..." mi disse guardandomi mentre ci fermavamo a un semaforo.
Guardai la strada affannato, posando il cellulare e guardando la facciata neoclassica della mia scuola, con grande sollievo e trepidazione, sapendo che arrivato lì avrei rimandato la discussione, scampando alle grinfie di mio padre, che successivamente sarebbe andato al lavoro, sarebbe tornato stanco morto a casa, lamentandosi con Sol, si sarebbe addormentato e si sarebbe dimenticato dell'accaduto; dovevo resistere solo pochi secondi.
"Perfetto: allora saprai che sono stato dai miei amici, che ho cazzeggiato con loro e che sono stato un vero angioletto..." lo schernii, esibendo uno dei miei migliori sorrisi sarcastici e strafottenti, continuando a fissare il mio liceo, pronto a scendere.
Il semaforo diventó giallo, mentre mio padre rosso dalla rabbia.
"Chato smettila subito di raccontare fandonie!" Urlò fuori di sè, pestando con furia l'acceleratore appena il semaforo, con mio grande sollievo, scattó sul verde.
"Cazzate vorrai dire..." lo provocai, ormai eravamo a pochi metri dalla scuola.
Mi piaceva vedere le persone arrabbiate, lo trovavo semplicemente affascinante il modo in cui qualcuno tirava fuori il peggio di se stesso.
"E come ti permetti ad usare questi termini in mia presenza! Sono un direttore d'azienda e cosa piú importante tuo padre! Non un povero sf-..." non lo lasciai finire, perchè gli feci notare che eravamo difronte al cancelli di scuola.
Lui accostò, come era solito fare, e io con agilitá invidiabile mi sganciai la cintura di sicirezza, aprii la portiera e arraffai il mio zaino, caricandomelo in spalla.
"Perfettamente ragione boss, ora vai che fai tardi alla tua piccola riunione di impiegati" lo presi in giro, usando un tono sarcastico, chiudendo la portiera e andandomene, lasciandolo con un'espressione allibbita in volto; un po' perchè, sicuramente, non aveva apprezzato la mia "maleducazione" se così si poteva chimare, e un po' perchè, secondo me, aveva capito che l'avevo fregato di brutto.
Appena varcai la soglia della scuola i miei occhi scorsero un ragazzo alto, dal ribelle ciuffo castano messo di spalle che conversava animatamente con una ragazza dai lunghi capelli rossi.
Non sembrava stessero avendo una discussione pacifica, dato che lui sembrava scazzato in una maniera assurda e lei che lo guardava a braccia conserte, scrutandolo allibbita con gli occhi verdi decisamente troppo truccati.
Mi avvicinai ridendo, capendo la situazione e sperando di tirare fuori il mio amico dalle grinfie della rossa.
"...Ero ubriaco porca miseria, possibile che sei così rincogl..." stava per dire, ma proprio in quel momento gli arrivai da dietro, circondandogli le spalle con un braccio e rivolgendogli il sorriso più amichevole che potessi farli, ignorando bellamente la ragazza, che mi osservava con una palese espressione disorientata in volto.
Jason si voltò, mutando la sua espressione rabbiosa in una dapprima sorpresa e poi gioiosa.
"Guarda chi si rivede: il mio coglione tatuato preferito!" Disse ridendo, dandomi una pacca sulla spalla.
Mi staccai ridendo invitandolo con un gesto del capo a seguirmi, nulla da dire che lui afferro' l'occasione al volo, capendo le mie intenzioni.
"Andiamo che si è fatto tardi, sennò ritardiamo a lezione" disse incaminandosi insieme a me verso l'entrata della scuola, sperando che la sua "compagnia da una notte" non ci seguisse.
Cosa che, ovviamente, non accadde.
"Ma dove cazzo vai Moriarty?!? Riporta il tuo culo subito qui, per cosa mi hai preso: per una sgualdrina?!?" Urlò presa dall'ira la rossa, salendo i gradini d'entrata della scuola sui tacchi vertiginosi e seguendoci fin dentro i corridoi, pullulanti di ragazzi e primini che prendevano i propri libri dall'armadietto o chiaccheravano animatamente fra loro.
"Da come sei vestita tesoro sembri una che, per guadagnarsi la pagnotta, la sera va sulla tangenziale con la minigonna.
Quindi si: sembri una sgualdrina" la presi in giro, voltando leggermente la testa, continuando a darle le spalle, così come Jason.
Lei si fermò, molto probabilmente triste o delusa, ma a me e Jason non fregava più di tanto: odiavamo le ragazze che si attaccavano morbosamente a qualcuno.
Semplicemente odiose.
Quel loro pensare che ci saremmo affezzionati, o addirittura innamorati.
Innamorati...una parola che avrei eliminato dal dizionario se solo avessi potuto, insieme a tutti i derivati di amore...
Quelle menti piccole, che si aspettano una storia di amore nata da una sbronza, come quelle dei film.
Mi sentii prendere su una spalla, mi voltai verso Jason.
"Ehi! Siami arrivati..." mi informò indicandomi con il pollice la nostra aula, dalla quale provenivano schiamazzi e rumori.
"È dal primo anno che mi chiedo come facciamo ad arrivare sempre per ultimi" scherzai.
Il mio amico rise avvicinandosi alla porta.
"Forse perchè abbiamo una rompicoglioni di ragazza che ci trattiene" scherzò, strappandomi un sorriso.
Jason abbassò la maniglia della porta, entrando.
La nostra classe non era cambiata di una virgola dal primo anno: era con delle pareti bianco panna semplici, banchi verde acido scarabocchiati, la cattedra del professore che svettava accanto alla lavagna nera ancora sporca degli aloni bianchi di gesso.
E poi al centro loro; le persone che consideravo la mia seconda famiglia, quelle che riuscivano a strapparmi sempre uno dei miei rari sorrisi: i miei compagni di classe.
Erano tutti riuniti a chiaccherare, ma si stopparono subito appena io e Jason entrammo in classe.
"Chato, Jason!" Ci salutò la voce allegra e leggrmente femminile di Martin, venendoci incontro.
"¡Hola pelirojo!" Lo salutai scombinandoli i capelli rossi, lui mi guardò di sottecchi, sistemandosi in una risata.
"Chato, come stai?" Mi salutò una voce più mascolina, alzai gli occhi solo per vedere la figura imponente di Svevo Carbajalo, il vice-capitano della mia squadra di pallavolo.
"Ehi bestia, come va? Pronto per il campionato di inizio anno?!?" Gli domandai, lui rise mostrandomi i suoi denti bianchi.
"Assolutamente! Sono sicuro che vinceremo, se il nostro capitano non ci abbandona anche quest'anno" mi disse, dandomi una pacca sulla spalla.
"Cercherò di non mancare Svevo, sennò anche quest'anno non ci aggiudicheremo la coppa" lo presi in giro, ricordando l'anno prima quando, durante un allenamento della squadra, caddi e mi provocai un piccolo trauma al ginocchio che non mi permettè di giocare il campionato scolastico di pallavolo, che la mia squadra perse nel girone finale.
"Non ti montare la testa Santana! Siamo capacissimi ancheda soli" si intromise George Sasha Ian, il fratello di Jason, parandosi davanti a me con i suoi inusuali capelli color cielo e il sorriso divertito in volto.
Ricambiai con una risata.
"Contaci Sasha!" Lo presi in giro.
La "Los Angeles Medium School" era famosa nella città per una cosa sola: la squadra di pallavolo maschile.
Io ero il capitano e lavoravo come centrale e in squadra con me c'erano Svevo, Jason, Martin e George.
Svevo e Jason erano i due attacanti, forti in schiacciata e alti abbastanza per fare un muro quasi invalicabile.
George era l'alzatore, il migliore a detta mia, e Martin era un libero; ottimo nella recezione ma peccava negli appoggi.
Gli altri due liberi erano due ragazzi di una classe del secondo piano, con i quali non scambiavamo una parola neanche per sbaglio.
Erano bravi, bravissimi, ma erano due classici figli di papá, che si credevano Dio sceso in terra solo perchè facevano qualche recupero di palla.
Odiosi.
"Ehi Chato!" Mi salutò una voce alle mie spalle, toccandomi da dietro.
Mi voltai, incrociqndo gli occhi verdi e vispi di Hector Martinez.
"Hector, quanto tempo!" Lo salutai, abbracciandolo.
Lui ricambiò la stretta, poi ci allontanammo e si sistemò gli occhiali da vista e la camicia azzurrina.
"Come va il microtrauma al ginocchio?" Mi domandó curioso.
Stavo per rispondere, ma qualcun'altro lo fece per me, lasciandomi con le labbra schiuse.
"Da come fuggiva insieme a Jason mi sembra che vada bene" scherzò Patrick, apparendo accanto ad Hector nella sua stazza enorme e la felpa dei "The National".
"Frittella, cosa fai mi stalkeri?!?" Gli domandai freddo, guardandolo male.
Lui abbassó lo sgurdo sconfortato, quasi a scusarsi, passarono diversi secondi di silenzio totale fatte di occhiate gelide e sorprese, finché non mi stancai e mi misi a ridere, andando incontro a Patrick e abbracciandolo.
"Non sei cambiato di una virgola: sempre il solito emotivo" gli dissi staccandomi e dandoli delle pacche nei ricci castani, lui mi osservò con le mani strette attorno alla vita.
"Sempre il solito stronzo" mi rimproverò con un sorriso, facendoci scoppiare tutti in una grossa ma trattenuta risata.
"È bello rivedervi" disse George Sasha Ian, togliendosi le lacrime da risara dagli occhi.
"Anche per me" aggiunsero in man forte Hector e Martin.
Dopo quella frase l'aula piombò in un silenzio tombale, scandito solo dal ticchettio dell'orologio da polso di Svevo.
Sentimmo la porta aprirsi e ci voltammo solo per vedere un uomo dai capelli neri lunghi fino alle spalle raccolti in parte da una piccola coda, una leggerissima barbetta scura sul viso; era vestito con un pantalone blu, una camicia azzurra arrotolata fino ai gomiti e scarpe sportive.
Sembrava piuttosto giovane, forse di solo due o tre anni più grande di noi.
"Ma chi cazzo è?" Domandò con il suo solito accento italo-portoghese Svevo a Patrick.
Lui fece spallucce.
L'uomo si fermò e si appoggiò leggermente alla cattedra, squadrandoci con i suoi occhi color ghiaccio.
"Mbhe? Che aspettate? Sedetevi" ci ordinò con voce ferma e sicura, esortandoci con un gesto del capo verso i banchi.
Tutti ci guardammo stupiti, domandandoci con gli occhi chi fosse questo sconosciuto appena arrivato che ci impartiva ordini.
"Senti: ci dici chi minchia sei?" Esordii con la mia solita voce ferma e fredda.
Lui mi guardò dalla testa ai piedi, senza scomporsi nè per li sguardi odiosi che gli lanciavamo nè per i termini con cui gli avevo posto la domanda.
La risposta ci fece sgranare leggermente gli occhi, a tutti.
"Il vostro nuovo professore di letteratura; mi chiamo Victor Strange*" rispose semplice.
Nell'aula calò ancora più silenzio del momento prima che quest'uomo entrasse, poi io e i miei compagni scoppiammo a ridere.
"Tu il nostro nuovo professore?!? Ma quanti cazzo di anni hai?!?" Gli domandò fra le risate Jason.
"Ventitre" rispose senza scomporsi lui, osservandoci freddo ed impassibile, a braccia conserte.
"Ma hai la nostra etá! Come diavolo hanno fatto a prendere un ragazzino?!?" Lo sbeffeggiò George, scrutandolo.
Il nuovo professore si mosse e si sedette alla cattedra.
"Forse perchè ho una pluri-laurea e un curriculum invidiabile" rispose puntando i suoi occhi ghiaccio in quelli di Sasha, azzurri come i suoi.
D'improvviso tornammo tutti seri, e fissammo tutti il nostro semi-coetaneo.
"Fammi capire: tu hai solo ventitre anni, quindi sei solamente di cinque anni più grande di noi, e hai giá lauree multiple e un curriculare..." stava per dire Martin.
"Curriculum" lo corresse lui prendendo da un cassetto il regitro di classe.
"Quello che è..." sbuffò il rosso, meritandosi una fugace occhiataccia.
"Da competizione?" Continuò sorpreso.
Il professore prese una penna dal cassetto stesso dal quale aveva preso il registro e le tolse il tappuccio, poi annotò qualcosa e prese l'elenco dei nomi.
"Si. Ora sedetevi tutti, preferibilmente ai posti che vi hanno assegnato in prima e non quelli a piacere,o mando una comunicazione ai genitori in allegato a un'espulsione di tre giorni" disse semplice continuando a fissare il registro.
Ci guardammo tutti, poi ci andammo a sedere: non perchè avessimo paura di espulsioni e robe simili, ma perchè quel tipo non dava neanche la soddisfazione di arrabiarsi.
Noioso.
Tutti prendemmo i posti che c'erano stati assegnati in prima, e io rimasi da solo.
L'anno scorso ero seduto accanto a un ragazzo, Bernard o Gerald mi pare che si chiamasse, che poi si trasferì a causa di impegni lavorativi dei genitori all'incirca a metá anno.
Quella solitudine non mi dava fastidio, no: ero uno a cui piaceva la compagnia, le feste, la presenza di persone (in senso fisico, a livello mentale avrei mandato un po' tutti a quel paese) ma avevo bisogno dei miei momenti di solitudine, e poi non soffrivo tanto a stare da solo.
L'assenza delle persone non mi provocava vuoto o sofferenza, semplicemente mi passava indiffidente.
"Svevo Carbajalo..." chiamó il ragazzino pluri-laureato.
Svevo alzó la mano da uno degli ultimi banchi di destra.
Victor (così si chiamava aveva detto) annotò sul regsitro la presenza.
"Patrick Jon Hodor Baratheon DeStark**..." continuò leggendo il nome kilometrico di Patrick, che alzò la mani grande e tozza dal primo banco del centro.
"Hector Martinez..."
Hector disse un semplice "presente".
"Martin McCastle..." disse il corvino cercando la chioma rossa di Martin, trovandolo seduto accanto a Svevo.
"Jason Moriarty..." continuò, Jason, nel banco accanto al mio, alzò la mano.
"Chato Santana..."
Alzai la mano, lui mi guardó solo per un attimo e poi chiamò l'ultimo nome del registro.
"George Sasha Ian Stranger..." disse infine.
George, seduto accanto a Hector, distolse lo sguardo dal suo disegno e alzò la mano per poi ripuntare gli occhi sulla sua opera e tornare a passare la matita sul foglio bianco.
Ora vi starete sicuramente chiedendo perchè Jason e George avevano cognomi diversi nonostante fossero fratelli, risposta ovvia e semplice: erano fratellastri.
Avevano la stessa madre, ma padre diverso: Jason è di un anno più grande di George (che ha fatto la primina), e perse il padre in un incidente domestico (gli cadde da uno scaffale una scatola di metallo in testa) poche settimane dopo essere nato.
La madre si risposò poco dopo con un altro uomo e dalla seconda relazione nacque George.
Mistero svelato.
"Bene..." disse Victor posando il registro nel cassetto, per poi prendere un libro rilegato in pelle rossa.
"Oggi spiegher..." non finì la frase che la porta si splancò, faendoci voltare tutti.
"S-s-scusi il ritardo. P-p-posso entrare se non arreco troppo disturbo?"
ANGOLO AUTRICE: Hiiiiiii!!! Salve a tutti, come va?
Mi scuso per il ritardo colosale, ma ho avuto molto da fare e, cosa maggiore, la mia app per scrivere sembra essersi bevuta qualche alcolico di troppo...
Cooomunque: questa è la seconda parte della storia, questa volta sotto il punto di vista di Chato.
Nel suo personaggio non mi rispecchio molto, soltanto per quel fatto della solitudine: anche io, proprio come lui, non vedo la solitudine come qualcosa di cui spaventarsi e, stranamente, non soffro se mi ritrovo da sola; sempre come lui ho bisogno dei miei momenti di pace e tranquillitá assoluta, pace e tranquillità che trovo solo stando da sola a leggere, scrivere e/o ascoltare musica.
Per il resto non c'entra quasi nulla con il mio essere XD.
Bene: come ultima cosai scuso ancora enormemente per il ritardo e ringrazio @bidognodilui e @Jupiter013 per aver votato la storia e per averla commentata (ah, Jupy: porta pazienza per il tuo OC che nel prossimo chappy lo troverai XD).
Detto questo chiedo perdono per aventuali errori ma la mia fantastica app non mi permette di corregerli.
Che bello sapere che il proprio capitolo farà schifo a causa degli errori di battitura.
Ora vi saluto, qui sotto i nuovi personaggi apparsi nel capitolo⤵.
Un bacio e alla prossima.
*citamento a Doctor Strange, personaggio che Benedict Cumberbatch (prestavolto del prof. Victor XD) ha interpretato. (stesso cognome e aspetto, scusate ma sono fan sfegata della Marvel XD)
**Chiaro riferimento ai personaggi di "Game of Thrones". L'attore che ho scelto per Patrick ha interpretato "Fritella" nel Trono di spade, altro citamento sul gruppo musicale della sua felpa (i "The National") che hanno usato una loro canzone come sottofondo di un episodio della serie ("Le nozze rosse", per precisare).
[PERSONAGGI NUOVO CAPITOLO]
ROBERT DOWNEY JR/PAULO JAVIER SANTANA.
SALMA HAYEK/LOLA SOLEDAD FERNANDEZ
FEDERICO RUSSO/HECTOR MARTINEZ
CHACE CAWFORD/GEORGE SASHA IAN STRANGER
SERGIO CARVAJAL/JASON MORIARTY
BENEDICT CUMBERBATCH/VICTOR STRANGE.
(immaginatevelo con i capelli lunghi fino alle spalle XD)
RUPERT GRINT/MARTÌN MCCASTLE
TAYLOR LAUTNER/SVEVO CARBAJALO
BEN HAWKEY/PATRICK JON HODOR BARATHEON DESTARK
Ora vi saluto definitivamente.
Grezie ancora a tutti! ♡♡♡
Ps: In America alcune scuole iniziano un mese in ritardo di quelle italiane, ma finiscono leggittimamente dopo, verso metá luglio.
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