CAP XI - gambler's heart-
Nacque che pesava poco o niente. I dottori dissero che non ce l'avrebbe fatta a vivere più di una settimana... ma si sbagliarono.
Crebbe nella miseria più totale, il padre era un povero ubriacone, la madre una serva di qualche potente signore. Molti le dissero che come uno nasce muore... ma si sbagliarono.
Quando iniziò a giocare a poker tutti le dissero di lasciar stare, che maglia e uncinetto dovevano essere il passatempo di una donna e che le carte erano per gli uomini... ma anche lì si sbagliarono tutti.
D'altronde se una ha come nome Fortuna, un motivo ci dovrà pur essere no?!
Vinse il primo "World Series of Poker", fece molti soldi, ma ancora di più ne ottenne sposandosi una dozzina di volte con miliardari diversi, e divorziando altrettante volte. Aveva 69 anni oramai, single convinta. Più che altro convinta che il tredicesimo idiota da prosciugare ben benino del suo patrimonio non l'avrebbe più trovato. Eh sì, perché a quell'età la vecchiaia stava avanzando anche per lei, e piuttosto rapidamente, come un treno a tutta velocità in un tunnel. Fortuna cercò di rallentarla il più possibile con interventi chirurgici, ma oramai non c'era più niente da fare: né botox da iniettare né pelle da tirare. E per lei, narcisista convinta, vedere la sua bellezza (quella bellezza che aveva fatto cadere ai suoi piedi Dio solo sa quanti uomini), giorno dopo giorno, appassire, era come trovarsi con una macchina a fari spenti e senza benzina dall'altra parte del tunnel, lo stesso tunnel nel quale stava passando il treno a tutta velocità.
Aveva 69 anni Fortuna ed era stanca. Stanca dei soldi, degli uomini, ma soprattutto stanca di non fare nulla. E così quando ricevette la notizia dai media che il poker alla texana era diventato legale, un progetto le balenò subito in mente: aprire una catena di sale da gioco nella City col suo nome. "Fortuna's poker" sarebbe stato bellissimo... sarebbe stato se la stessa idea non fosse venuta anche a the Boss.
Si era già comprata una ventina di sale e gli operai avrebbero terminato i lavori in un paio di mesi... e invece... Il boss andò da lei mostrandole due uniche opzioni: o gli pagava il pizzo mese per mese su ogni sala (e pagare il pizzo a the Boss era come lavorare gratis) o gliele rivendeva tutte con un piccolo sconto... poco più della metà di quanto le aveva pagate lei. Scelse la seconda opzione. Questa cosa non le andava giù, non tanto per i verdoni persi, ma perché quello era il suo progetto, il suo sogno, il suo primo e unico amore: il poker.
Dopo varie suppliche era riuscita finalmente a fissare un appuntamento con the Boss: l'avrebbe dovuto incontrare il 12 di luglio nel pomeriggio per cercare, un'ultima volta, di farsi restituire ciò che era suo, anche a costo di ricomprare tutto al prezzo originale. Ma l'incontro saltò perché quel giorno, nella mattinata, al boss avevano ammazzato il figlio. Voci dicevano che era stata la moglie del defunto, Ilary Hope, aiutata da uno degli uomini del boss. Ai due aveva sentito che si era unito poi anche un ragazzo, ma Fortuna non era riuscita a scoprire che ruolo avesse in quella storia quest'ultimo.
Erano passati due giorni e non faceva altro che arrovellarsi il cervello per come fare a risolvere questa situazione, quando il telefono della sua villa squillò. Non c'era nessuno che potesse andare a rispondere: il maggiordomo era in ferie e la cuoca era andata a fare la spesa. E quindi si trovava da sola in casa. Si alzò, irritata da quel suono, dalla poltrona sulla quale era seduta, maledicendo con tutta se stessa quel dannato telefono che stava squillando e chi la stava chiamando. Alzò la cornetta:
«Chiunque lei sia spero abbia un buon motivo per disturbarmi.»
Una voce maschile rispose:
«Io ho ciò che le serve...»
«Aaaaah e basta con queste pubblicità.» E chiuse la telefonata.
Stava per ritornare sulla poltrona quando il telefono riprese a squillare.
Andò a rispondere, ancora più adirata:
«Senti, io non ho bisogno di niente capito?! La smetta di chiamarmi.» Fece con voce isterica.
E di nuovo:
«Io ho ciò che le serve...»
«A me non serve NIENTE!»
«Oh cazzo! Ma mi vuoi far finire di parlare?» Le urlò il misterioso interlocutore, mandando a quel paese il "lei" e le buone maniere. «Io ho ciò che ti serve per realizzare il tuo sogno.»
Fortuna rimase basita:
«Chi sei tu?»
«Chi sono io non ha importanza. Se anche ti dicessi il mio nome non cambierebbe nulla, non credo che tu mi conosca. Diciamo che io ho una cosa che serve a te e tu hai una cosa che serve a me.»
«Continua...» disse lei interessata.
«Non qui, non per telefono. Ci vediamo alle 15:00 al "Gambler's bar" al centro... sai qual è?»
«Sì.» Rispose lei . «Come farò a riconoscerti?»
«Avrò un mazzo di carte in mano.» E attaccò.
Chi diamine poteva essere? Uno scherzo di pessimo gusto forse? No... le aveva parlato del suo sogno e, a parte the Boss, nessuno ne era a conoscenza, e the Boss non le sembrava potesse essere dell'umore adatto a fare scherzi. Quella voce non l'aveva mai sentita. Rimase a pensarci un po' su, poi decise di andare, tanto non aveva nulla da fare... come sempre d'altronde.
Alle 15:00 era puntuale lì davanti come mai lo era stata in tutta la sua vita. Non vide nessuno ad aspettarla fuori così entrò. Il posto era carino, una specie di sala da tè stile english: panche in legno di mogano, tavoli verdi, teiere in porcellana. Un buon profumo di biscotti appena sfornati aleggiava nell'aria accompagnato dalla musica del buon vecchio Miles, era "Kind of blue". Il pezzo andava, mentre soltanto una delle due cameriere presenti in sala girava come una dannata tra un tavolo all'altro, a prendere ordinazioni con un'aria non particolarmente allegra; l'altra era ferma a civettare con un ragazzo. La prima si avvicinò a Fortuna:
«È sola? Vuole accomodarsi?» Le disse in modo sbrigativo.
«No, sto aspettando una persona.» Rispose cercando con lo sguardo il suo uomo misterioso.
«Matilde! Biscotti al tavolo 17...» Una signora dalle fattezze quasi sferiche, dietro al bancone, la stava chiamando.
«Arrivo, arrivo.» E poi, a bassa voce, continuò: «Grassona del cavolo. Che diavolo viene a fare tua figlia qui? Lei lo chiama lavorare quello?» Disse indicando l'altra cameriera che si era messa letteralmente seduta a parlare con il cliente.
«Io lo chiamo venire a rubare lo stipendio.» Rispose la vecchia giocatrice, parlava lei poi... il famoso bue di quel detto.
«No, dico io!» Insistette vedendo che Fortuna le dava corda. «Lasciala a casa e paga me un po' di più, dato che faccio anche quello che non fa la tua adorata figliola.»
«Matilde i biscottiii!»
«Arrivo, arrivo. Oh! Ogni giorno deve fare la cascamorta con qualcuno quella stronzetta. Oggi s'è attaccata con quella mezza specie di prestigiatore...»
«Prestigiatore?»
Forse era lui.
«Sì! Quello lì con quel mazzo di carte in mano.»
Era lui.
«Non ti preoccupare.» Disse lei seriamente «la faccio staccare io quella stronzetta.» E si avvicinò al tavolo, mentre la proprietaria chiamava per l'ennesima volta a voce alta Matilde e Matilde per l'ennesima volta, quasi silenziosamente, la mandava a fare in culo.
Il ragazzo stava lì tutto concentrato a spiegare alla bella nullafacente qualche trucco:
«Vedi, zuccherino? È molto facile.» e dispiegò rapidamente le carte sul tavolo in linea retta con una precisione quasi geometrica. «Ora prendi una estremità.»
«Nooo, non ne sono capaceee...» fece lei capricciosamente «Fammelo vedere di nuovo tu!»
Fortuna le diede un colpetto con il medio sulla spalla attirando la sua attenzione:
«Zuccherino... vedi di levarti dalle palle.»
La cameriera rimase senza parole, forse perché in quella sua minuscola zucca le parole non c'erano proprio. Si alzò, offesa come una bimba di due anni, e andò via. Fortuna si mise seduta e, senza proferire parola, prese una carta della estremità di destra e iniziò ad increspare il mazzo con una sorta di piccola onda che andava avanti e indietro. Poi le raggruppò e cominciò a passare le carte da una mano all'altra nell'aria, diverse volte. Sbatté il mazzo al centro del tavolo. Lui lo prese e iniziò a mischiarlo con una mano sola dividendolo in tre parti le quali sembravano danzare armoniosamente come se avessero vita propria. Con un movimento fulmineo di polso fece scivolare il mazzo sul dorso per poi farlo cadere, a cascata, nell'altra mano con la quale dispiegò le carte in un grande ventaglio. Iniziò a sventolarsi.
«Lady Fortuna, immagino.»
«Io invece non immagino proprio chi tu sia.»
«Il cognome Evans non ti dice nulla?»
«Evans, Evans...» stette un po' a pensarci su, poi la faccia le si illuminò come chi in una stanza buia, a tentoni, riesce finalmente a trovare l'interruttore della luce. «Ah! Ho sentito parlare di te! Tu non sei quel Marc Evans che tre giorni fa ha perso 500.000 dollari a poker contro the Boss?»
«Esatto, sono io, ma...» e richiuse il ventaglio di carte «... il cognome Evans non ti dice nient'altro?»
Si spremette le meningi.
«No, nient'altro... dovrebbe?»
«Se ti dico: ristorante Crazy Bull?»
«Senti ragazzo» disse lei facendo per andarsene via. «Non ho tempo da perdere con questi stupidi indovinelli.»
Marc diede un fragoroso pugno sul tavolo, proprio mentre Miles finì di suonare e tutti si voltarono nella loro direzione.
«Il tempo per te non è mai stato un problema, vero? Non è questo quello che hai sempre pensato tra un bicchiere di rum e un uomo? Ma adesso ti sei accorta che la bellezza non è eterna neanche per te. Ti sei resa conto, a 69 anni, di essere insoddisfatta della tua vita e che nella tua vita oramai c'è rimasto solo il rum e... 20 sale da gioco che non sono più le tue. So che the Boss se ne è appropriato indebitamente e ora tu faresti qualsiasi cosa per riaverle.»
Di peso si lasciò cadere di nuovo sulla sedia:
«Ma chi diavolo sei tu?»
«Marc Evans, questo lo sai già.» Poi chiamò la cameriera che stava parlando con lui fino a qualche momento fa. «Birra?» Chiese a Fortuna.
«Sì, grazie... chiara per favore.» Disse lei ancora scossa.
«Due bionde medie, zuccherino.» E le lanciò un bacio, lei contraccambiò con un occhiolino e andò verso il bancone. Dopo qualche minuto le birre stavano lì sul loro tavolo, gelate quasi. Marc passò la mano lungo il boccale raccogliendo la condensa e si rinfrescò il volto. Quel locale era molto carino ma privo di condizionatori, e le enormi pale che giravano sul soffitto erano palliativi inefficaci contro il caldo torrido.
«Tutti abbiamo un sogno. Anche mio fratello ne aveva uno, sai?» Le disse iniziando a bere. «Lui è... uno dei cuochi più bravi che io abbia mai conosciuto. Da piccolo stava sempre vicino a mamma mentre cucinava, carpendo ogni ricetta. A 10 anni preparò il suo primo sformato di patate, il più buono che io avessi mai mangiato, persino migliore di quello di mia madre. Un piccolo genio dei fornelli.» Trangugiò un bel sorso, scolandosene la metà. «E così a 25 anni decise di aprire un piccolo ristorante che chiamò Crazy Bull: era quello che aveva sempre desiderato. Ma all'inizio è dura, soprattutto nel campo della ristorazione: farsi conoscere, ottenere una clientela affezionata.... poi ci sono i rivenditori, senza tener conto dell'affitto, delle bollette, di acqua, luce, gas. Insomma... un bel casino. Si rischia di andare in rosso senza accorgersene e così, senza rendersene conto, si rischia di chiedere un grosso prestito alla persona sbagliata.» Marc la guardò dritta negli occhi «Mio fratello si chiama Steve Evans e ti deve 80.000 dollari e io, oggi, sono qui per saldare il suo debito.»
Fortuna si ricordò del fratello, e che il 30 di luglio era il termine ultimo per riconsegnarle i soldi, altrimenti il locale sarebbe passato a lei. Ora come ora di quegli 80.000 dollari non è che le fregasse qualcosa, tantomeno le interessava il ristorante. Aveva altre cose per la testa, ma quella situazione che si era creata in quel momento la divertiva, era come se stesse giocando. Rilanciò:
«Perché non pensi ai 500.000 che devi a the Boss, piuttosto che preoccuparti per tuo fratello?»
«Perché mio fratello è la cosa più importante che mi sia rimasta.» Finì la birra, fino all'ultima goccia, poi continuò: «Quando mia madre fu ricoverata in ospedale i dottori ci dissero che non era nulla di grave, un paio di giorni e l'avrebbero dimessa. Ma sbagliarono la diagnosi, peggiorò nel giro di poche ore, abbandonandoci... Mio fratello era lì accanto al letto, le stringeva la mano, non l'aveva lasciata da sola neanche per un secondo. Io invece, tranquillizzato dal referto, ero andato in un'altra città per partecipare ad un importante torneo di poker. Steve non mi perdonò mai, e così, da quel giorno, è come se fossi morto anche io per lui.» Chiamò zuccherino ordinando un'altra birra, con quel caldo andava giù come se fosse acqua. «Vedi Fortuna, io voglio tornare in quel ristorante e ordinare quel suo cazzo di sformato di patate divino ancora una volta, e voglio guardarlo negli occhi e dirgli "Steve non devi più preoccuparti del tuo locale, se n'è occupato il tuo fratellone." E voglio abbracciarlo e chiedergli scusa.»
Le lanciò il mazzo di carte. «Il mio sogno è che il sogno di mio fratello non finisca.»
Come una scossa le percorse la schiena... che sensazione strana, la stessa che provò quella volta in finale contro quello che sarebbe poi diventato il suo primo marito. Ma i sentimentalismi non facevano per lei, si ricompose immediatamente e, cominciando ad applaudire, gli disse:
«Ah! Che storia commovente. E così, se ho ben capito, te la vorresti giocare a poker vero?»
«Esattamente.»
«Nessuno è mai riuscito a battermi lo sai?» Era piena di sé, lo era sempre stata. Quando si parlava di carte poi, la sua arroganza aumentava esponenzialmente, come se non lo fosse già abbastanza lontana dal tavolo verde. «Toglimi una curiosità: io come pot ho gli 80.000 dollari di tuo fratello, ma tu... che cos'hai da mettere sul piatto?»
Marc chinò il capo e non rispose. Fortuna insistette:
«Ehi ragazzo allora?»
Niente.
«Te lo chiedo per l'ultima volta: che cos'hai da scommettere?»
«Noi!» Fece un ragazzo alzandosi in piedi, insieme ad una ragazza, dal tavolo dietro di loro. Lui era sui 30, capelli castani, occhi idem 1.73 circa. La ragazza che teneva sottobraccio era molto bella e molto spaventata. Lui si avvicinò a Marc e, incrociando le braccia, gli disse:
«Abbiamo sentito tutto. Certo... che coincidenza incontrarci di nuovo, vero?» ma si capiva dalla sua espressione che sapeva benissimo che non lo era. «Te l'ha detto il vecchio che saremmo stati qui?»
«Sì.» Rispose mestamente, come chi confessa, ad un prete, il peccato del quale ci si vergogna di più. «Poco dopo che te ne andasti dal parco, lui mi disse che vi avrei trovati qui a quest'ora.»
«Quel vecchio biscazziere!»
«Stavamo aspettando un amico» disse lei. «Ma temo che non ritornerà.» Una lacrima le scese.
«Scusate!» Fece Fortuna attirando la loro attenzione. «Ma voi chi siete?»
«Te l'ho detto: noi siamo il suo pot. Io sono Bill Will, lei è Ilary Hope. Immagino che stavolta, sentendo questi nomi, ti venga in mente qualcosa di più... o sbaglio?»
Diamine! La moglie e assassina di Nicolas, ed era lì di fronte a lei. Si diede un pizzicotto sul braccio, sotto al tavolo, per non farsi vedere da nessuno. Sentì dolore: non era un sogno. Se fosse riuscita a consegnare i due al boss, pensava Fortuna, altro che 20 sale! Il capo dei capi gliene avrebbe regalate il doppio come minimo.
Non era mai stata una gran chiacchierona, solitamente qualche parola ce la faceva a dirla, ma quella rivelazione gliele tolse, riuscì a biascicare solo un :
«Vi conosco!»
La bella cameriera arrivò tutta sorridente, portando l'altra birra che aveva ordinato Marc.
«Ecco qua! Una bionda come me!» ma la sua battuta non fece ridere nessuno: già in una situazione normale sarebbe risultata pessima, qualcuno forse là tra i presenti avrebbe potuto a malapena accennare un sorriso in un gesto di estrema pietà, per farle credere che era stata simpatica, figuriamoci in quel frangente. Capì che non era aria (ebbene sì, riuscì a capirlo) e se ne tornò a servire altrove.
«In quale modo volete mettervi in gioco?» Chiese Fortuna ai due.
Bill lanciò un'occhiata ad Ilary, lei esitò qualche istante, poi fece sì con la testa.
«Diremo a Marc il luogo nel quale siamo diretti!»
Fortuna lo analizzò per qualche secondo. Lei non era solita leggere i libri ma le persone. Gli occhi, i movimenti delle mani, un aumento di sudore, qualche vena visibile che iniziava a pompare di più: non c'era dettaglio che le sfuggiva. Tu potevi anche dire una cosa, ma se il tuo corpo diceva l'esatto opposto, Fortuna lo capiva. Lei in questo era dannatamente brava, ed è per questo che arrivò a quella finale. Il ragazzo era sincero, incrociò le braccia e disse:
«D'accordo.»
Bill si avvicinò all'orecchio di Marc e gli sussurrò qualcosa, poi gli diede una sonora pacca sulle spalle.
«Ora potete cominciare.» Dopodiché fecero per andarsene via quando Marc lo chiamò.
«Questa è la seconda volta che mi salvi il culo. Non me ne dimenticherò.»
I due rimasero per qualche secondo davanti alla porta d'ingresso, poi Bill si girò e, lanciandogli un sorriso, gli disse:
«Cerca di vincere... per tuo fratello e per noi.» E uscirono dal locale.
Marc tirò fuori una piccola valigetta che aveva tenuto per tutto il tempo lì accanto a lui, la poggiò sul tavolo, la aprì e cominciò a tirarne fuori delle fiches di vari colori.
«Ammiro quei ragazzi, hanno le palle quadrate. Non è cosa da tutti sacrificarsi per gli amici.» Fortuna cominciò a mischiare le carte.
«Sacrificarsi?» E ripeté nuovamente «Sacrificarsi? Parli come se avessi già vinto. Mi dispiacerebbe se alla fine di questa partita dovessi rimanere delusa.»
«"Perdere" è una parola che ho cancellato dal mio vocabolario.» Rispose lei orgogliosa.
«Anche "umiltà" a quanto vedo.» Finì di distribuire le fiches «E comunque non sono miei amici.»
«Ah no?! Allora sono dei pazzi totali.» Cominciò a ridere di gusto, come se le avessero raccontato la più divertente fra le barzellette.
«Forse... come un pazzo che ti sta aspettando da 39 anni. Si chiama Tom Young. Mi sa che lo conosci vero?»
«L'hai incontrato?» Disse lei tornando immediatamente seria. Un'altra scossa le percorse la schiena.
Marc rispose con un'altra domanda:
«Giochiamo al poker alla texana?»
«Sì, va bene.» E gli ripeté: «L'hai incontrato?»
«Stava in un parco qui vicino.»
«Quel vecchio...»
Ma Marc la anticipò:
«Bada a come parli! Se devi dire qualche cattiveria su di lui risparmiatela perchè non se la merita.» Lo difese come neanche avrebbe difeso il padre.
Fortuna si zittì, distribuì le carte e iniziarono la partita.
Andarono avanti per parecchio tempo, dopo quasi un'ora la situazione era rimasta bene o male invariata, con l'ago della bilancia che pendeva leggermente dalla parte di lei con 10.000 dollari in più rispetto alla posta iniziale. Sollevò lentamente le sue due carte: american airlines, come veniva chiamato in gergo.
Asso asso, il punto migliore.
«Comunque...» disse Marc «a proposito di perdere...»
«Sì?» Fece lei che già stava pensando a quali colori utilizzare per le insegne fuori dalle sue sale.
«Quella partita Godhand te la lasciò vincere.»
«Ma che stai...» lo osservò, non mentiva. Il "dicendo" le rimase in gola, mentre una marea di emozioni e di ricordi iniziarono a convergere lì in quel punto. Si sentì soffocare, tossì. Prese la birra che oramai era diventata un brodo, e bevve. Poi, ancora con il bicchiere a mezz'aria, a pochi centimetri dalla sua bocca gli disse:
«Ragazzo, comunque vada questa partita, che tu vinca o perda... considera saldato il debito di tuo fratello.»
«Che hai intenzione di fare?»
«Devo andare a giocare una finale.»
«D'accordo, Fortuna, ma il destino di quei due ragazzi è ancora legato a questo tavolo, vero?»
«Sì.» Disse senza esitazioni.
«E allora torniamo a noi.»
Lei posò il bicchiere e prese tutte le sue fiches mettendole al centro, Marc spizzo' le sue carte e fece altrettanto. Tutti e due sapevano che quella mano sarebbe stata l'ultima e che avrebbe deciso tutto.
Si guardarono negli occhi per trenta giri di quella maledetta pala che ruotava sulle loro teste, per 7 gocce di sudore che colarono dalla loro fronte, per 120 battiti dei loro cuori, dopodiché, all'unisono, dissero:
«All in.»
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